Sebbene il terremoto del 24 agosto sia stato una sciagura, il governo utilizzerà questa catastrofe per condizionare la manovra economica per il 2017, e per contrattare una maggiore flessibilità nei conti pubblici con l’Europa. Ancora una volta il presidente del Consiglio avrà una scusa per sostenere che l’Italia fa le riforme per la crescita, ma anche il destino rema contro. L’Europa dirà di sì, fortunatamente, ma nessuno indagherà o spiegherà che l’Italia non è vittima di un destino amaro e/o crudele, piuttosto delle politiche pubbliche che prefigurano arroganza e ignoranza da parte della politica.

La minore crescita dell’Italia rispetto all’Europa è storica e consolidata. Mediamente è inferiore di 0,5 punti percentuali, nonostante un apparato produttivo che solo in apparenza si avvicina a quello tedesco. Quest’apparato produttivo a-europeo condiziona la crescita, la produttività e quindi la domanda di lavoro.

Finiti gli incentivi per i nuovi assunti, sono finiti i roboanti dati relativi alla crescita dell’occupazione. Sebbene in molti abbiano sostenuto che alla fine gli incentivi hanno funzionato, in pochi s’interrogano sugli effetti economici. Le imprese hanno continuato a maturare profitti sulla base di una frazione del loro conto dare-avere. Per definizione nelle imprese oligopolistiche, quelle dominanti nell’economia moderna, il costo del capitale è molto più importante del costo del lavoro; se le imprese insistono sul costo del lavoro, vuol dire che non hanno più niente da dire in termini di valore aggiunto, produttività e benessere. In altri termini, gli incentivi hanno sostenuto lavoro povero e a basso contenuto tecnologico.

Nel frattempo arrivano al pettine le brutte misure adottate dal governo e realizzate sulla base di una razionalizzazione della spesa futura. Si tratta di 15 e più miliardi di euro; il governo rinvia nel tempo i tagli di spesa con il meccanismo della crescita del deficit rispetto a quello preventivato per attutire l’impatto, disastroso, di un aumento dell’Iva e delle accise – le così dette clausole di salvaguardia. Il ministro dell’economia continua a sostenere che la legge di Stabilità avrà poche misure e tutte quante saranno per la crescita, ma il problema vero sono le misure già prese che bruciano le risorse per il rilancio economico. Spending review? Cominciamo a lavorare sui provvedimenti adottati dal governo Renzi anche per evitare di gettare denaro inutilmente.

La manovra economica sarà inevitabilmente brutta. Da un lato la minore crescita del Pil condiziona non solo il rapporto debito-Pil, ma riduce anche le entrate fiscali. Possiamo e dobbiamo migliorare il fisco anche per ripristinare un minimo di solidarietà tra redditi diversi, ricordo che ormai l’Irpef distribuisce, sostanzialmente, reddito da lavoro dipendente, ma la struttura del Paese non produce più reddito.

Inoltre, il problema principale del reddito nazionale è, soprattutto, un problema di polarizzazione del reddito nel mercato. Un aspetto che richiama la necessità di un ruolo macroeconomico della contrattazione salariale e quindi del sindacato. Questa sarebbe una vera riforma di struttura, ma il governo non ama le riforma di struttura, piuttosto quelle di classe. Infatti, il governo immagina di ridurre le tasse alle imprese o aumentare l’ammortamento degli investimenti, dimenticando che l’una e l’altra sono figlie delle aspettative di crescita e non del regime fiscale. Se studiassero un po’ Keynes sarebbe molto utile.

Forse un aspetto positivo del terremoto potrebbe essere la crescita degli investimenti pubblici; quelli privati scordiamoli. Se ben congegnati e programmati sono utili anche ad avviare delle politiche industriali interessanti nel campo dell’edilizia “sostenibile”, che necessita di beni e servizi realizzati dalla manifattura. Inoltre, il governo potrebbe industrializzare la ricerca pubblica. Le imprese private, come già illustrato, preferiscono lavorare su frazioni del proprio dare-avere. Il governo studia la possibilità di una flessibilità europea di tre quarti di punto di Pil – 0,75 – come espresso in sede Ecofin a fine 2015, ma occorre ricordare che sono flessibilità valide per un solo anno e non è dato sapere come incidono sul così detto pareggio di bilancio di medio termine, che per ora è fissato al 2019. Il deficit salirà probabilmente ben oltre il 2,2% di quello delineato da alcuni ministri e comunque ben oltre l’1,8% indicato nel Def per il 2017.

Sempre che il rapporto debito-Pil possa scendere, ma la dinamica del Pil, lo scenario internazionale e la deflazione non aiutano in nessun modo. Solo per l’attività corrente sarà necessaria una manovra non inferiore a 25 miliardi di euro, ma sarebbe necessaria una manovra straordinaria in cui sono prese misure straordinarie.

Paolo Leon prima di lasciarci ci ha dato un’idea di politica economica per uscire dalla crisi: «… è evidente che sarebbe necessario l’intervento pubblico, ma il problema è complesso perché occorrerebbe, nei Paesi ricchi, una riforma della finanza e delle banche, una redistribuzione di reddito e ricchezza, una riduzione del grado di monopolio, un aumento della spesa e della proprietà pubbliche, un rafforzamento legislativo del sindacato, per far aumentare la domanda effettiva e il reddito nazionale, e tutto ciò senza vendere titoli di Stato sul mercato, ma obbligando la Banca Centrale ad acquistarli, riducendone l’indipendenza…».