Prendendo per mano lo spinozismo critico e le teorie femministe, il volume firmato da Rosi Braidotti, Materialismo radicale, è l’esito di un percorso più lungo, comparso già nel suo libro precedente Per una politica affermativa (edito tre anni fa). Sono contributi su cui la filosofa è tornata dopo gli anni fulgenti che hanno contrassegnato la soggettività nomade, indovinata e irriverente, conditio sine qua non dell’intero suo impianto successivo. Comprese le riflessioni intorno al postumano che, senza l’assunzione di questa sua precisa categoria – teorica e pratica – di nomadismo, non interpellerebbero le vite di ciascuna e ciascuno.
Che cosa sia cambiato in questi tre anni che ci distanziano dal primo compiuto depositarsi della raccolta di saggi sulla politica affermativa, ci viene suggerito dall’orizzonte di realtà, materica, sociale e politica, in cui i corpi hanno continuato a immergersi, traversando rapporti di potere e sapere strozzati da un neoliberismo sempre più feroce e violento.

In questo solco, di cui già Foucault intuiva l’incandescenza là dove era riuscito a nominare le nuove soggettività emergenti da una storia di oppressione ed esclusione, il punto braidottiano sui corpi è fondamentale nella contingenza di quanto si svolge in un presente avvelenato. Nell’epoca delle passioni tristi che danno in pasto alla pubblica opinione perlopiù bocconi indigeribili, ancorché incomprensibili, il lavoro di Braidotti si colloca in una sponda riuscita con le nuove generazioni di donne, femministe, transfemministe, queer, che compongono la costellazione delle «cattive ragazze» riferite nel primo saggio del volume. Hanno nomi e cognomi, come nel caso della sua traduttrice e curatrice italiana Angela Balzano, con cui la filosofa intrattiene da anni una interlocuzione preziosa, si chiamano infine in tanti altri modi – anonimati che mai arriveranno alle pagine di un testo e che pur tuttavia sono ciò che muove l’intero dipanarsi delle pratiche.

È DUNQUE ALL’ATTIVISMO, osservato, ascoltato e partecipato anche in anni recenti, che bisogna rivolgersi per comprendere il significato di espressioni quali Otre l’uomo, oltre la natura, oltre la specie, in cui ci si riconosce corpi sessuati e mutanti, interrelati. Si tratta di luoghi esperienziali, definiti «paradossali» felicemente poiché sono riusciti a chiamarsi fuori dalla morsa prestazionale e mortifera per affermare se stessi, in una prossimità grazie a cui ne hanno interpellato degli altri. Le cattive ragazze sono state per esempio quelle che per prime, negli anni Settanta, hanno inaugurato il gesto femminista (eccellente titolo di un libro a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna citato da Braidotti), o ancora le pussy riot, punk women e riot grrrls leggendo in questo passaggio, con molte altre puntate, una genealogia che comprende la differenza sessuale come precondizione costantemente sorgiva e, per tale ragione, generativa.

ROSI BRAIDOTTI è molto chiara nell’indicare il solco a cui si potrebbero aggiungere i movimenti di Non Una Di Meno, ma anche il #metoo e quelli che nelle varie parti del mondo fanno proprie le istanze politiche che hanno una posta in gioco globale. I temi del corpo mutante e dell’elemento mostruoso sono da intendersi allora come pratiche situate, con ricadute transnazionali. Sì le maschere dissonanti delle musiciste che hanno occupato la cattedrale di Mosca nel 2012 ma anche la forza femminile anti-colonialista indipendente Tal’at in Palestina di queste ultime settimane o ancora le attiviste per le strade cilene nelle ultime ore. Presenze prodigiose, là dove se ne intuisce non la straordinarietà bensì l’etimo innervato nel «prodigio», ovvero la spinta in avanti di un dire in uno spazio abitato che non è pura astrazione ma incarnato. Dalla Polonia all’Argentina, passando per l’Amazzonia, la Palestina, il Kurdistan e ancora altri. Questo il tenore trasformativo dell’affermazione di cui Braidotti parla, una prassi «etico-politica» di lotta; nel femminismo risponde alla vita intesa come portato di libertà nel quotidiano impegno e sovvertimento della disumanità diffusa. Ribadire il senso della radicalità può servire da orientamento, stare al passo con i luoghi e i tempi del vivente, per esempio, sia umano che non umano, scalza la tristezza: eredità autoriferita di un certo narcisismo militante – e soprattutto maschile.

FA BENE Braidotti in conclusione a ricordare Emma Goldmann e il suo messaggio del «Se non posso ballare non è la mia rivoluzione», perché saremo pure nomadi, cyborg e transitori ma al trappolone neoliberista che vorrebbe torcere simili guadagni con la dittatura dell’euforia scientista e tecnoligizzante si preferisce una politica persistente nel danzare, anzitutto, le relazioni. Nelle proprie fragilità e vulnerabilità, più brutali quando indotte. Ce lo insegnano le recenti prese di parola delle donne curde contro guerra e repressione, lo rappresentano piazze e manifestazioni transfemministe, lo ricordano ogni giorno quelle che il «materialismo radicale» non sanno immediatamente collocarlo in una traiettoria teorica ma ne sperimentano la rabbia, lucida e fluida, nelle proprie singole esperienze.