Gore Vidal, Cecil Beaton, Karen Blixen. E poi Cristopher Isherwood, Colette. Anche Marilyn Monroe, quando si sentiva a suo agio e aveva bevuto a sufficienza. Questi, per Truman Capote, i conversatori più brillanti che avesse conosciuto. Ma l’unica persona da cui racconta di essere stato davvero ipnotizzato è una signora incontrata per caso in biblioteca. Lui non ha ancora diciannove anni, lei ne dimostra più o meno sessantacinque. Capelli brizzolati, occhi azzurri, faccia volitiva e un po’ androgina. «Lesbica? Be’, sì». Una sera, è il 1943, escono insieme mentre nevica. In un caffè poco lontano, lei sorseggia una cioccolata calda e lui un martini molto secco, la signora chiede al ragazzo quali siano gli scrittori che ama di più. Scartato Hemingway, lui dice Fitzgerald e Faulkner. Poi aggiunge: «Mi piace molto Willa Cather. Ha letto Il mio mortale nemico?». Con espressione indifferente lei risponde: «Per la verità, l’ho scritto».
In quell’inverno di guerra Willa Cather è più vecchia di come la ricorda Capote, soprattutto è più stanca. I suoi libri hanno ancora molto successo: però sa che il mondo raccontato in quei libri, l’America innocente dei pionieri e delle praterie e della sua infanzia in Nebraska, è ormai travolto da una catastrofe. Lei, come voleva, non sopravvive alla sua fama né a quel mondo. Malata e incapace da tempo di lavorare, muore nel 1947 in un appartamento di Park Avenue, a New York. Era nata in Virginia nel 1873, a scrivere aveva cominciato molto presto: i primi racconti, le prime recensioni escono mentre frequenta l’università a Lincoln. Sarà poi giornalista, insegnante di inglese e di lettere classiche. La notorietà arriva nel 1918 con il quarto romanzo, La mia Antonia; nel 1922 Uno di noi vince il premio Pulitzer. Quando riceve il Nobel, è il 1930, Sinclair Lewis dichiara che più di lui l’avrebbe meritato Willa Cather.
In Italia i suoi libri si comincia a tradurli proprio all’inizio del declino, pochi anni prima dell’incontro con Capote. Ma cosa aveva spinto l’ormai settantenne Willa Cather verso l’adolescente stravagante e ambizioso a cui darà amicizia e consigli? Forse quella gioia ambigua di «prodigarsi per i giovani», l’incapacità di tollerare che «si perdano» e insieme il desiderio di «vivere la vita al loro posto» attribuiti all’ambivalente Myra Henshawe nel romanzo citato con slancio giovanile da Capote davanti al suo martini. Cardinale in tutta l’opera di Cather, il tema della giovinezza percorre come una corrente sotterranea il testo in superficie così fermo di Il mio memico mortale, più volte apparso in italiano e ora tradotto per Fazi («Le Strade», pp. 89, € 9,00) da Stefano Tummolini, che adotta il titolo nella sequenza meno consueta e più enigmatica: aderente al significato più profondo, perturbante poiché doppio della storia.
Quale attrazione innesca la vicenda consentendole di essere narrata? Cosa lega la protagonista Myra alla molto jamesiana ragazza Nellie Birdseye, sua narratrice defilata quanto partecipe, se non il mutuo benché cronologicamente sfalsato interesse dell’una per il mistero sigillato nella giovinezza dell’altra? Uscito nel 1926, ambientato per la prima parte in una New York innevata, Il mio nemico mortale è una ballata sul fatale inganno della felicità e dell’amore, una favola sulfurea sul disincanto dei sogni giovanili, sulla drammatica impossibilità di sfuggire non solo al proprio temperamento ma anche alla pomposa, patetica banalità del destino. Cather sceglie un impianto vistosamente teatrale, spartisce il testo in due atti separati da un decennio e costruisce un congegno ferreo lavorando sulla ripetizione, sul chiasmo, sull’ossimoro. Il breve romanzo risulta insieme distaccato e commovente, confortevole e angoscioso, smaltato e fosco. Una pietra preziosa, certo più sfaccettata delle ametiste che Myra porta al collo durante il primo incontro con Nellie e che nell’ultima scena il marito proprio a Nellie offrirà in eredità.
«Qualunque cosa si senta sulla pagina senza che sia specificamente nominata: questo, potremmo dire, è ciò che viene creato», affermava Cather in un saggio del 1922. Nella «sfumatura che l’orecchio indovina ma non sente» riposa l’incantevole potenza della sua prosa; quella «qualità sublime» dello stile per cui «l’aura emotiva», purtroppo non sempre nitida in questa traduzione molto piana ma con passaggi ancora scabri, raggiunge nei due tempi di Il mio nemico mortale una miracolosa profondità di timbro, più intensa del «fatto» raccontato. Disadorna però esatta, la pagina risuona di echi nebulosi, bisbigli oscuri, palpita sotto ogni frase «la presenza inspiegabile della cosa non detta». L’autrice è qui davvero «grande artista» quanto il suo adorato Flaubert: lo aveva capito uno scrittore così diverso da lei come Capote, a diciannove anni non ancora compiuti.