Due volte Oscar (per la sua Katharine Hepburn in Aviator di Martin Scorsese e per Blue Jasmine di Woody Allen), Coppa Volpi alla 64a Mostra per il Bob Dylan androgino in I’m Not There di Todd Haynes, Cate Blanchett, 51 anni, avvolti di biondo miele e di fragranza (il profumo Sì di Armani, di cui è musa da anni: una partecipazione da 8 milioni di euro), torna quest’anno a Venezia, presidente di giuria : altro bis, dopo essere stata presidente di giuria a Cannes due anni fa.

Mamma e casalinga a Hunters Hill, in quel di Sydney, Cate Blanchett è diva idolatrata in Francia, dove il Festival Américain de Deauville le ha dedicato 7 anni fa un omaggio scintillante, preceduto, l’anno prima, dalla medaglia di Chevalier des Arts et des Lettres. All’indomani di uno spot nei suoi andirivieni transoceanici a Parigi, stanca, si sfila le scarpe dal mezzo tacco («mi scusi, ma non ne posso più») e allunga le gambe sul divano, sirena inguainata nel nero prediletto d’un tailleur-pantalone, che esalta la candida lacca della sua celebrata epidermide. Moglie stabile (da 23 anni), madre di tre ex-ragazzini, cui s’è aggiunta una bimba adottata, una media (dagli anni 90 a oggi) di quattro film all’anno (tra cui, nel 2021, il nuovo Guillermo del Toro), l’attrice australo-americana è amata non solo dal pubblico ma – cosa non proprio frequente nel mondo dello spettacolo – dalle colleghe.

La sua più grande ammiratrice è Liv Ullmann, da quando l’ha diretta in teatro nel 2009 in Un tram che si chiama desiderio: « Un insegnamento unico, d’artista e di donna – ci aveva confidato l’attrice-regista norvegese –. Non solo perché è un’interprete che sa mettere a nudo le pieghe più oscure e più luminose del mondo femminile, ma perché quel mondo le appartiene per intero, a partire dalla sfera materna. Ovunque ci trascinasse la tournée, da Sidney a Washington, trovavo ogni volta, alla première, i suoi tre figli in camerino. Non credevo ai miei occhi. Non ha mai smesso d’essere la loro mamma, fino a un attimo prima d’entrare in scena. Non conosco nessun’altra attrice così».
Cate Blanchett risponde con uno dei suoi sorrisi larghi e riconoscenti, stirando con ulteriore soddisfazione i piedi nudi.

Oggi, signora, si ritrova con più statuette e trofei che figli…
Tutti felici incidenti, sia i figli che i premi! – ride l’attrice. Non ho mai pianificato nulla, continuo a recitare come agli esordi, per il piacere di farlo, senza impormi programmi o obiettivi: le attrici che preordinano strategie mi fanno paura.

Da vent’anni, la sua vita è un tiramolla tra periodiche gravidanze e ciak a catena.
Nel 2001 – con la gioia negli occhi enumera gli intrecci acrobatici e casuali –, il primo Signore degli anelli e primo figlio, Dashiell. Nel 2004, nascita di Roman e battesimo di Aviator di Scorsese. Sul set di Indiana Jones di Spielberg, nel 2008, ero già incinta di Ignatius. Da attrice, ho trascorso all’epoca più tempo in congedi per maternità che in riprese sul set: un paio d’anni in totale. Qualche film in meno, ma tanta felicità in più.

È stata classificata da FoxNews tra le mamme più belle del cinema, insieme a Angelina Jolie, Megan Fox, Beyonce … Può fornire una ricetta d’equilibrio armonioso tra vita familiare e professionale?
Aiuta sicuramente la complicità del marito, quando sia, come il mio, iperattivo ma, all’occorrenza, docilmente domestico: tanto che raramente, alle nostre uscite serali, ricorrevamo alla baby sitter. Essenziali sono gli orari di ferro e qualche dolce abitudine : sveglia alle 6, colazione chiassosa, con il cane e i due gatti tra i piedi o sulle sedie, i bambini da accompagnare a scuola e, la sera, per addormentarli, il racconto d’una fiaba.

Anche la sua vita di set è all’insegna di rigore spartano e femminile duttilità?
Fin da ragazza – risponde la regina scalza, con la sua voce calda e un guizzo d’affabilità mediterranea – mi sono abituata a rimpinzare all’impossibile ogni ora del giorno. A dieci anni, quando è morto mio padre, texano d’origine quebechese, sergente dell’US Navy, è cominciata una vita di ristrettezze, per me e tutti noi : mia madre insegnante, mio fratello, mia sorella, mia nonna. Vivevamo a Ivanhoe, vicino a Melbourne, dove ho poi frequentato l’università, imparando subito a dividermi tra due attività : i corsi di finanza e economia e le recite in teatri amatoriali, che han finito per appassionarmi al punto di iscrivermi a una scuola d’arte drammatica.

Come spiega l’ammirevole camaleontismo, un po’ stakanovista, dei suoi film? Quali i suoi miti di riferimento?
Gregory Peck… Jimmy Stewart… Uomini, sì. Mi sento tutt’una con loro, con la loro presenza, la loro intelligenza, la rotondità delle loro interpretazioni. Ma adoro anche le attrici: Bette Davis, Anna Magnani, Ingrid Bergman, Giulietta Masina, Liv Ullmann …

Tra un film e l’altro, come se non bastasse, è sempre riuscita a infilare teatro e tournées, tra cui «Les Bonnes» di Genet a Sydney, con Isabelle Huppert.
Finalmente insieme! L’idea era nata otto anni fa, quando è venuta a vedermi a Parigi, al Théâtre de la Ville, in Big and Small di Botho Strauss, con la regia di Benedict Andrews. E lui ci ha riunito! Adoro Isabelle: è una pila elettrica, un’attrice che non ha paura di nulla.

Con lo scrittore australiano Andrew Upton, suo marito dal 1997, dirige la Sydney Theatre Company, 4 palcoscenici e 4 cartelloni diversi. Il teatro s’è radicato nella sua vita?
Per un’attrice, il teatro è il fondamento della vita: perché la scena ti obbliga a pensare in profondità, a provare sensazioni e sentimenti nell’enfasi massima per poi riuscire a filtrarli nella loro più quotidiana elementarità. Il teatro ci apre e ingigantisce, perché ci allena a tornare semplici e minuscoli: ci insegna a confrontarci con la perdita, la mancanza, il vuoto.

Come in «Blue Jasmine», pièce grande schermo in cui Woody Allen era tornato finalmente cineasta dopo troppe stagioni da cineturista, anche grazie a lei, alle sue sorsate di bravura d’alcol e antidepressivi?
Non sarei mai riuscita a interpretare quel personaggio, un’arricchita della Fifth Avenue distrutta dalla crisi economica e costretta a rifugiarsi e riprender fiato dalla sorella proletaria a San Francisco, se prima non avessi interpretato in teatro Blanche DuBois in Un tram che si chiama desiderio diretto da Liv Ullmann. Son personaggi gemelli: che fingono quel che sono e recitano quel che vorrebbero essere. Appartengono a una galleria d’altre figure teatrali che ho portato in scena: Hedda Gabler o l’eroina di Big and Small, tutte donne distrutte dal confronto con la realtà.

«Blue Jasmine» preconizza i baratri Usa della vita ricca nel dopo pandemia?
Rappresentare il vuoto: è stata la maggiore sfida della mia vita, cui mi ha messo davanti Woody Allen, al quale non avrei detto di no neanche se mi avesse proposto di interpretare un cadavere. Mi ha sempre esaltato interpretare personaggi che mi terrorizzano, proprio perché non so da che parte prenderli. Non ho la minima esperienza di quel che può aver vissuto Jasmine, donna disillusa, depressa, sbriciolata: la sua camminata chic, che ho dovuto inventarmi, mi dava la nausea. Quel che me l’ha resa, se non familiare, affascinante aliena, è che non ha per identità che una maschera temporanea, fragilissima. È l’attrice di sé stessa. Si trova per la prima volta davanti a un vuoto che finora il denaro le aveva permesso di evitare: sé stessa. Lei non ha mai saputo chi è: perché non è.

Non è l’America-autoritratto di Trump?
Ci annuncia il naufragio, attraverso il corpo martire d’una delle sue vittime: il film è la zattera della società occidentale, materialista, farmaco-dipendente, della cultura Usa, cocktail d’ascensioni sociali e cadute vertiginose.

Che favole ha raccontato ai suoi figli, per allontanarli dal disastro?
Ho chiesto soccorso alla favola-cinema: ho tenuto sempre a portata di mano le orecchie da Hobbit che sul set mi danno l’autorità della regina Galadriel!