Secondo il Procopio delle Guerre vandaliche, quando la notizia della presa di Roma da parte dei Visigoti del 24 agosto 410 d.C. raggiunse la corte ravennate, l’imperatore Onorio dapprima proruppe in lamenti, salvo poi tranquillizzarsi alla scoperta che la Roma in questione era la città, non l’omonima gallina del suo pollaio. Il velenoso aneddoto – forse non scevro di allusioni al potere augurale degli uccelli, e amato da Alberto Savinio che, in Sentimento di Ravenna, confessa la propria predilezione per la storia «guardata dal buco della serratura» – serve a Procopio per denunciare la stolta inettitudine dell’imperatore, ma è quasi anticipatorio se è vero che, dopo nemmeno un settantennio, la deposizione di Romolo Augustolo avvenne nell’ovattato silenzio dei contemporanei, determinando per l’Impero romano d’Occidente una «caduta senza rumore», secondo la formula felicemente canonizzata da Arnaldo Momigliano.
Proprio la dicotomia fra grandi eventi e strutture di lungo periodo attraversa per intero il recente Tarda Antichità Profilo storico e prospettive storiografiche (Carocci editore «Frecce», pp. 258, € 25,00), con cui Arnaldo Marcone, professore di Storia romana all’Università di Roma Tre, fornisce una preziosa bussola per orientarsi nel cangiante panorama degli studi sulla Tarda Antichità, che da periodo storico – oltretutto canonizzato storiograficamente soltanto nel Novecento – si è trasformata negli ultimi decenni in un vero e proprio campo disciplinare nato all’intersezione di ambiti di studio diversi, dalla storia all’antropologia, dall’archeologia alla filologia.
È già nell’affrontare il nodo – spinoso quanto ineludibile – della periodizzazione, che Marcone dà corpo alle inquietudini metodologiche dell’attuale ricerca tardoantichistica. Quando compare la prima crepa nella scintillante costruzione imperiale, quando il piano inclinato della sua storia comincia a precipitare verso la caduta? E quando le trasformazioni, soprattutto quelle sociali e istituzionali, diventano tali da poter affermare che la transizione è finita, e una nuova epoca ha preso inizio? Il paradigma maggiormente diffuso, e che trova efficace sintesi in un adagio spesso attribuito a Peter Brown («Late Antiquity is always later than you think!»), è quello di un Tardoantico lungo e dai confini sfumati, esteso da Marco Aurelio a Maometto, se non proprio alla fine del primo millennio, con la piena maturazione culturale dell’Islam sotto la dinastia Abbaside. In parte anticipata, già negli anni venti, dalle tesi di Alfons Döpsch ed Henri Pirenne, l’ottica continuista ha prodotto una salutare rilettura dell’epoca compresa fra secondo e ottavo secolo, definitivamente affrancata dallo stigma della decadenza e valorizzata invece nei suoi aspetti distintivi, ivi compresa una peculiare creatività istituzionale, ma – specie attraverso «l’interpretazione minimalistica delle invasioni barbariche» – rischia di proiettare sul passato un’immagine unilaterale e accomodante, e di rendere evanescente lo stesso valore euristico della periodizzazione, come dimostra la progressiva dissoluzione della nozione di Alto Medioevo, illustre vittima collaterale dell’«esplosione di Tardoantico» (il copyright dell’espressione è di Andrea Giardina).
A controbilanciare queste tendenze, esito soprattutto di indagini di carattere storico-artistico e storico-culturale, Marcone dà spazio a recenti contributi di storia economica, storia militare, archeologia, che contribuiscono a tracciare del Tardoantico un quadro meno irenico: si tratta, in Occidente più che in Oriente, di un’epoca segmentata da fratture e crisi – a partire da quella del III secolo, il «basso impero in potenza» di Santo Mazzarino – che hanno come esito l’involuzione delle forme di vita cittadine, il cambiamento dell’organizzazione agraria e produttiva, il ridimensionamento dei commerci su larga scala, in un quadro frastagliato e asimmetrico in cui diviene decisiva la prospettiva regionale. Superando la dicotomia fra catastrofisti e continuisti, diviene allora possibile caratterizzare la Tarda Antichità come epoca di «transizione», a condizione – avverte Marcone – «che il termine “transizione” sia usato in senso forte, distinguendolo dalle semplici trasformazioni che sono inerenti a ogni periodo storico».
Le frontiere mobili del Tardoantico non sono però solo quelle cronologiche: dalle ricerche più recenti emerge infatti l’immagine di una Tarda Antichità non solo «lunga» ma anche «larga», estesa dall’Irlanda alla penisola indiana – così il sottotitolo del recente, bellissimo libro di Jas´ Elnser, Empires of Faith in Late Antiquity. Histories of Art and Religion from India to Ireland (Cambridge 2020) –, ormai definitivamente emancipata da ogni retaggio di eurocentrismo. A prezzo di una qualche marginalizzazione della riflessione otto-novecentesca sui processi di cristianizzazione dell’Impero e dell’ossessione ‘burckhardtiana’ per la figura di Costantino, il centro di gravitazione delle complesse dinamiche culturali del Tardoantico si sposta così da Roma a Edessa, la città-crocevia dell’Osroene in cui, come sintetizza Marcone, si assiste all’osmosi di forme di governo romano e «pratiche amministrative aramaiche innervate da influenze partiche e arabe», di cultura figurativa greca e cristianesimo siro-orientale. Ancora una volta, la porosità dei confini tradizionali impone attenzione alle differenze fra regioni e micro-regioni, con uno sguardo capace di valorizzare le interazioni fra dimensione locale e globale.
In quest’ottica, anche gli studi filologico-letterari possono contribuire alla comprensione dei fenomeni di ibridazione e contaminazione distintivi dell’epoca tardoantica: converrà però volgersi, più che ai generi letterari ereditati dalla tradizione classica, a quelli collocati alla frontiera fra cultura popolare e dotta, come la letteratura agiografica o la poesia epigrafica, vere e proprie cartine al tornasole dei processi di costruzione di soggettività che, dai deserti egiziani fino alle metropoli microasiatiche, si articolano in quella che è stata definita l’«età della spiritualità».
In fondo, è la stessa ricchezza del dibattito in corso a rendere testimonianza della profondità con cui la riflessione sul Tardoantico si è innestata nel cuore del moderno. Come dimostrato in uno dei suoi saggi più acuminati da Reinhart Herzog, il grande latinista della scuola di Costanza morto suicida nel 1994, è infatti almeno dall’epoca di Chateaubriand che l’Occidente si rispecchia in una Tarda Antichità intesa come «Epoche der Krise», assumendo la caduta di Roma come paradigma della (delle) crisi del presente; e non è un caso che lo stesso concetto di Tarda Antichità rappresenti di fatto un’invenzione storiografica novecentesca, il cui atto di nascita è costituito dalla Spätrömische Kunstindustrie di Alois Riegl (1901), un libro innervato della cultura della Vienna di Klimt e Freud.
In questo panorama estremamente sfaccettato, in cui la ricerca pare aver abbandonato ogni illusione di isomorfismo fra strutture politico-economiche, sociali e culturali, il libro di Marcone aiuta a individuare i diversi punti di faglia dei sommovimenti che attraversano un mondo, quello tardoantico, il cui unico carattere unificante sembra la sua stessa inaggirabile policromia. Come affermato di recente da Brown ricordando le letture giovanili di Henri-Irénée Marrou, Mazzarino e Momigliano nei tardi anni cinquanta, per i tardoantichisti questi sono ancora «exciting times».