Tutti contro tutti. Lunghi mesi di procés indipendentista e la mazzata del 155 anziché rafforzare i partiti indipendentisti hanno ottenuto il risultato di frammentare ancora di più una situazione già piuttosto complicata.

 

BARCELONA, SPAIN - OCTOBER 17: President of Catalonia, Carles Puigdemont, works during a government meeting at the Palau de la Generalitat building on October 17, 2017 in Barcelona, Spain. A judge of the Spain's National Court remanded in jail yesterday accused of sedition Jordi Sanchez, president of the Pro-independence organization Catalan National Assembly (ANC), and Jordi Cuixart, leader of Omnium Cultural. Both leaders are key members of the Catalan independence movement. (Photo by David Ramos/Getty Images)

 

Il quadro attuale è il seguente. Carles Puigdemont, che da Bruxelles pregava i suoi ex alleati di Esquerra Republicana di rieditare l’alleanza Junts pel Sí, magari allargandola, si è dovuto arrendere all’evidenza: Erc non ha alcuna voglia di confondersi di nuovo con il PdCat di Puigdemont e dell’ex president catalano Artur Mas. Alla fine il president «esiliato» a Bruxelles ha dovuto accettare di guidare la lista Junts per Catalunya a cui sperano di riuscire ad aggiungere qualche personalità «esterna». Tutto pur di non correre da soli, convinti (a ragione) che il partito (ex Convergència) è in caduta libera, sia per i tagli al welfare e la corruzione a cui gli elettori li associano, sia per la posizione ambigua nelle ultime fasi della lunga saga indipendentista, quando alcuni nel partito, illuminati da qualche barlume di buonsenso, mostravano timidi dubbi sulla riuscita di tutta l’operazione. Paradossalmente, il fatto di dover presentare Puigdemont come candidato, li costringe alla difesa più acritica delle erratiche scelte politiche dell’ex Govern. L’unica speranza è che «i due Jordi» (i presidenti delle associazioni indipendentiste in carcere) si candidino con loro e non con Erc.

D’altra parte, Esquerra, sulla carta più indipendentista, mostra maggiori dubbi sulla strategia seguita finora: il no netto che il segretario Junqueras dal carcere ha pronunciato all’accordo con il PdCat ne è prova. E fa sospettare che dopo le elezioni potrebbe cambiare socio politico, riportandolo nell’orbita di sinistra.

MA CHI C’È A SINISTRA, a parte la Cup? I comuni di Ada Colau. Catalunya en comú presenta Xavi Domènech, che continua a criticare sia gli indipendentisti che il Pp e il 155, ma che difendendo le istituzioni catalane viene percepito, a torto o a ragione, come più vicino agli indipendentisti. Una sensazione confermata dalla clamorosa decisione presa dai militanti di Barcelona en comú, il partito di Colau a Barcellona: il 54% (2.059 elettori, su un totale di 40% del censo totale) ha deciso di rompere il patto con i socialisti per il loro appoggio all’articolo 155. Una mossa politica molto discutibile: Colau dispone di soli 11 consiglieri su 41, il patto coi socialisti (che è durato un anno e mezzo) le dava qualche respiro. Ora è sola con 7 partiti all’opposizione, i socialisti arrabbiatissimi, Erc e PdCat pronti ad aiutarla ma vedremo in cambio di cosa. Davanti alle critiche, la sindaca ieri ha confermato di non essere indipendentista e di aver criticato molto la dichiarazione unilaterale, ma non ha svelato se era contraria a favorevole alla rottura del patto.

Non che le critiche al Psc non siano condivise da molti, tanto più che il 21 dicembre si presenteranno assieme ai democristiani di Unió, partito scomparso dalla scena catalana dopo anni di ferrea alleanza con Convèrgencia, perché anti-indepentista (ma ai tempi erano a favore dell’autodeterminazione, anatema per i socialisti oggi).

MA LA CONFUSIONE REGNA anche sulla narrativa con cui accompagnare la campagna elettorale. Se è chiaro che la detenzione di mezzo governo non può che generare simpatie (sabato l’ennesima manifestazione è riuscita ancora una volta a riunire molte centinaia di migliaia di persone), d’altra parte cominciano a essere resi pubblici i distinguo. Sono già due gli ex ministri, l’Erc Clara Ponsatí e il PdCat Santi Vila che ammettono che il governo, al contrario di quanto sostenuto pubblicamente, non era minimamente preparato per costruire una repubblica. I membri della presidenza del Parlament hanno usato nella loro difesa l’argomento che la «dichiarazione di indipendenza» votata dal parlamento era solo per finta («non aveva effetti giuridici», hanno sostenuto, carte e verbali alla mano). Peccato che questo non è quello che hanno raccontato ai cittadini. Persino Puigdemont in un’intervista al quotidiano belga Le Soir ha assicurato di essere disposto ad accettare un altro accordo con la Spagna che non sia l’indipendenza: «Un’alternativa è sempre possibile».

ANCHE LA CUP senza battere ciglio ha deciso domenica di partecipare alle elezioni, pur non essendo quelle costituenti della repubblica catalana, e pur essendo conseguenza dell’azione di un governo che non riconoscono. E lo faranno in una lista aperta – in cui quasi sicuramente avrà un posto anche l’ex segretario di Podem, Albano Dante Fachin, cacciato dalla direttiva di Podemos.

Venerdì scade il termine per chiudere le liste: vedremo se ci saranno altre sorprese. In questa situazione, nel post 21 dicembre difficile un tri- o quadripartito di sinistra, ma qualcuno ci crede.