Si è aperta ieri la campagna elettorale per le elezioni catalane, previste (per ora) per il 14 febbraio. L’incertezza sulla data è dovuta al fatto che – con i dati dei contagi per Covid alle stelle, la Spagna ieri vantava ben 900 casi positivi ogni centomila abitanti negli ultimi 14 giorni – il governo catalano, con l’opposizione dei socialisti, aveva cercato di posporne la celebrazione sine die. Oggi il tribunale superiore catalano si pronuncerà definitivamente sul ricorso presentato, probabilmente respingendolo.

Tecnicamente, infatti, non si tratta di una sospensione dovuta a una causa di forza maggiore (accadde l’anno scorso in Galizia e Euskadi): stavolta il governo catalano le ha convocate con la pandemia in corso, e pretendeva annullarle, non ritardarle. Oltretutto, è più di un anno che l’allora presidente Quim Torra (ora sospeso dai pubblici uffici per non aver rispettato l’imparzialità durante le ultime elezioni, per essersi rifiutato di togliere uno striscione a favore dei politici condannati per il referendum del 2017) aveva certificato la fine della tumultuosa alleanza fra il suo partito, erede di Convergència Democràtica de Catalunya (la destra nazionalista catalana) e Esquerra republicana de Catalunya (Erc). Ma poi si sono dovuti approvare i conti 2020, è intervenuta una pandemia, poi una sospensione di Torra fino a che l’attuale presidente ad interim, l’ex vice di Torra e candidato di Erc, Pere Aragonès, ha fatto scadere tutti i termini perché fossero convocate le elezioni proprio il giorno di San Valentino, chissà auspicando che torni l’amore fra gli ormai rancorosi soci del governo indipendentista.

Ma intanto la situazione è cambiata: i socialisti, oltre a governare il Paese, hanno candidato quello che fino a tre giorni fa è stato il ministro della sanità che ha gestito la crisi, Salvador Illa. E improvvisamente, per la prima volta da più di dieci anni, le quotazioni dei socialisti sono salite. Erc che fino a un mese fa assaporava una possibile prima vittoria dai tempi della Repubblica (che gli consentirebbe l’egemonia indipendentista), ora si vede in un inaspettato testa a testa.

Mentre la destra catalana si è divisa in due partiti, dopo lo scontro generato dalla fuga dell’ex presidente catalano che portò al referendum del 2017, Carles Puigdemont, attuale eurodeputato: quelli che si considerano i duri e puri, Junts per Catalunya (lista piena di personaggi razzisti), e quelli invece eredi di una tradizione nazionalista più “democristiana”, con il nome di PdCat. Entrambi capeggiati da due donne: la deputata a Madrid Laura Borràs il primo, e l’ex ministra di Torra Àngels Chacón il secondo. Altre due donne a capo di En Comú Podem, la coalizione che riunisce Podemos, verdi e il partito della sindaca Ada Colau, con Jéssica Albiach, e della Cup, i nazionalisti della sinistra radicale, con l’ex sindaca di Badalona ed ex di En Comú, Dolors Sabater. L’altro attore importante è un ormai debole Ciudadanos, primo nelle ultime elezioni ma incapace di formare un governo, guidato da Carlos Carrizosa. Infine il Pp, da sempre residuale in Catalogna, con Alejandro Fernández.

Per la prima volta rischia di entrare Vox, capeggiato dal deputato a Madrid Ignacio Garriga, primo deputato nero di ultradestra. La chiave ora è sapere se i partiti indipendentisti torneranno a ottenere la maggioranza dei seggi. Intanto, dopo 3 anni di carcere, per la seconda volta è stata concessa la semilibertà a quasi i tutti i prigionieri politici, una misura a cui hanno diritto ma che già una volta il tribunale supremo spagnolo è riuscito a revocare: parteciperanno in questa campagna (quasi tutta telematica). Sottovoce, a Madrid si parla di possibile grazia del governo, ma solo dopo le elezioni.