Sfilavano i big, ieri, al processo ai 12 politici e attivisti indipendentisti catalani che si tiene a Madrid. Quello che, senza esagerazione, è stato definito il «processo del secolo», si sta rivelando come un vero e proprio redde rationem per la politica spagnola degli ultimi anni.

Ieri è stato il turno dei testimoni convocati dalle parti, fra i quali lo stesso ex presidente Mariano Rajoy, la sua vice Soraya Sáenz de Santamaría e l’ex ministro delle Finanze, Cristóbal Montoro, oltre che l’ex presidente catalano (antecessore di Puigdemont), Artur Mas e la ex presidente del parlamento catalano, Núria de Gispert, predecessora di Carme Forcadell, una dei 12 alla sbarra.

Nelle scorse settimane, gli imputati sono stati lungamente interrogati dal pubblico ministero, dall’avvocatura dello stato (per chi ha voluto rispondere), ma nessuno ha accettato le domande dell’accusa popolare, esercitata dal partito di estrema destra Vox. L’interrogatorio martedì del presidente dell’associazione culturale indipendentista Òmnium, Jordi Cuixart, l’unico non politico fra i 12, è stato quello invece dal più elevato valore politico: in tre ore e mezza (seguite religiosamente su un maxischermo al lato della sede di Òmnium a Barcellona), Cuixart ha tenuto testa a tutte le accuse, dichiarandosi prigioniero politico, «repubblicano e indipendentista», sostenendo che «dopo 500 giorni di carcere, uscire di prigione non è più la mia priorità, ma la risoluzione del conflitto catalano». «Il diritto allo sciopero si guadagna scioperando, il diritto a votare si guadagna votando», ha detto, ricordando che «dovremmo essere orgogliosi» che l’1 ottobre è stato «il più grande esercizio di disobbedienza civile in Europa», anche se si è celebrato un referendum solo «simbolico», mentre la polizia esercitava una «violenza sproporzionata». L’accusa, che ancora una volta ha dimostrato un certo pressapochismo, chiede per lui 17 anni di carcere per ribellione.

Ieri invece hanno parlato, convocati soprattutto da Vox, i principali responsabili politici durante la crisi catalana. In mattinata, è stato il turno dell’ex vicepresidente Saénz de Santamaría.

Secondo l’ex numero due di Rajoy, la dichiarazione di indipendenza del 27 ottobre 2017 non fu simbolica (e giustificava dunque l’intervento del governo spagnolo con l’applicazione del famigerato 155 «per preservare la convivenza»), ma ha anche detto che se un atto non si pubblica non ha effetto (e quella dichiarazione, priva di sostanza giuridica, non venne pubblicata).

Né lei né Rajoy sono stati in grado di giustificare perché, se davvero temevano una sedizione, non applicarono lo stato d’assedio (invece che il 155, varie settimane dopo le manifestazioni popolari alla base delle accuse, che ha definito «molto violente»).

Rajoy ha detto che quello celebrato il 1 ottobre non fu un referendum, e ha contestato la ricostruzione dei fatti delle difese: «Il 155 ci parve la reazione più efficace, migliore, più giusta e la meno dannosa». Rispetto alla violenza della polizia, ha detto che gli dispiaceva «moltissimo» ma ne ha attribuito la responsabilità ai dirigenti catalani. Secondo l’ex premier, il referendum dell’1 ottobre era diverso da quello del 9 novembre 2014 (quando il governo non intervenne), perché il primo era «vincolante» (ma la legge che lo istituiva era stata bloccata proprio da un ricorso del governo centrale). L’ex ministro del Tesoro Montoro ha sottolineato che venne applicato un «controllo assoluto» sulle finanze catalane e pertanto che non era possibile spendere soldi pubblici per il referendum, anche se non ha escluso che ci possano essere stati trucchi contabili.

L’aneddoto della giornata: i due testimoni della Cup, l’ex deputato e portavoce Antonio Baños e l’ex deputata Eulalia Reguant, sono stati cacciati dalla sala per essersi rifiutati di rispondere a Vox, cosa che avrà per loro conseguenze penali (i testimoni non possono rifiutarsi di rispondere).