Reginetta di bellezza di soli sei anni, JonBenet Ramsay viene trovata morta, strangolata e con un trauma cranico, nella casa di Boulder (Colorado) dove viveva con i genitori e il fratellino il 26 dicembre del 1996. Poco più di venti anni dopo, a gennaio scorso, viene presentato al Sundance il documentario di Kitty Green che cerca di ricostruire il suo omicidio – Casting JonBenet – poi passato anche per Panorama Dokumente alla Berlinale e ora approdato su Netflix.

Il titolo fa riferimento ai provini su cui è basato l’intero documentario: non si cerca di sciogliere l’enigma mai risolto – chi ha ucciso JonBenet? – non si va in cerca dei protagonisti di quella vicenda, non si fa uso di filmati di repertorio nonostante se ne trovino in abbondanza, data la moltitudine di interviste rilasciate all’epoca dai genitori di JonBenet, Patsy e John.

A Boulder, nella stessa comunità a cui appartenevano i Ramsay, Kitty Green cerca degli interpreti per il suo film, costruito principalmente proprio sui provini degli aspiranti attori, che oltre a provare le scene – i momenti salienti dell’indagine, le svolte, i vicoli ciechi – esprimono le loro opinioni sull’omicidio che sconvolse la comunità vent’anni prima. La maggior parte punta il dito contro la madre, alcuni riportano le teorie più strampalate ventilate dalla stampa all’epoca dei fatti: un giro segreto di pedofili, un uomo che impersonava Babbo Natale e che si sarebbe introdotto a notte fonda nella stanza della bambina.

Kitty Green non cerca una strada più percorribile o verosimile delle altre, la sua idea è proprio di riflettere il prisma di interpretazioni, reazioni e pensieri fatti dalla comunità sul caso di JonBenet: non è lei la protagonista in assenza del film ma ciò che la sua morte ha suscitato negli altri.
Dalle parole degli aspiranti attori emergono storie traumatiche personali, il desiderio di venire scritturati e di «apparire», la malizia, l’empatia – vera o artefatta – nei confronti della tragedia. Le loro stesse brevi interpretazioni non sono pensate per essere mimetiche, ma per specchiare una moltitudine di idee, sentimenti, emozioni; per fare l’affresco di un caso mediatico e della comunità in cui è nato.

Dietro l’idea di Kitty Green non c’è però altro che la sua stessa trovata: la prospettiva della regista non scende mai sotto la superficie, attestando solo l’evidenza attraverso uno sguardo sottilmente altezzoso nei confronti del «campionario di umanità» che porta sullo schermo. In una sequenza i piccoli attori chiamati a interpretare il fratellino di JonBenet – Burke, brevemente sospettato dell’omicidio ma poi accantonato in quanto troppo piccolo per avere la forza di sfondare il cranio della sorella – testano la veridicità dei sospetti rivolti a Burke, cercando di spaccare un melone con una torcia. Una scena che, più che cinismo dell’operazione, riflette la mancanza di un suo senso profondo, che vada oltre i riflessi su uno specchio deformato