«Sull’ultimo atto della pittura è caduto un sipario monocolore e sarebbe vano indugiarvi in mistica contemplazione». È la lapidaria sentenza che sigilla la prima dichiarazione di poetica di Enrico Castellani, pubblicata nel 1961 ma scritta due anni prima, e recuperata cinquant’anni più tardi in un nuovo testo che chiude i suoi Scritti 1958-2012, editi da Abscondita (pp. 191, euro 22,00) per le cure di Federico Sardella , già autore con Renata Wirz del catalogo ragionato dell’artista.
Castellani non è stato un teorico sistematico: non ha mai fatto della scrittura uno strumento di dibattito, ma un mezzo di chiarimento personale. Salvo gli interventi giovanili su «Azimuth», la rivista diretta insieme all’amico Piero Manzoni, sono poche le dichiarazioni a stampa, accompagnate da sparuti testi pensati per la pubblicazione ma rimasti inediti, animati da una tensione militante che non ha tuttavia riscontri effettivi nella ricerca visuale.
Specie agli inizi, Castellani sembra aver chiaro soprattutto che cosa non vuole essere. Prendendo le parti dell’arte monocroma in Totalità dell’arte d’oggi (da cui è tratta la citazione d’apertura) sente l’urgenza di smarcarsi dall’Informale più che di dar conto delle sue ricerche sulla rispondenza fra superficie a rilievo e incidenza della luce: l’importante è non confondere l’azzeramento monocromo con «l’allargarsi della macchia fino ai bordi della tela od un mal dissimulato naturalismo impressionistico od ancora un retorico esistenzialismo chiesastico». Il problema di fondo, scrive sul secondo numero di «Azimuth», è proprio segnare la demarcazione fra Continuità e nuovo, o, come recitava il primo dattiloscritto, fra Nuovo ed eredità: la sua «zona d’indagine» (termine mutuato da Manzoni) era infatti altra rispetto sia alle istanze neoplastiche sia a Dada e Surrealismo.
Eppure Castellani usa qui due termini – «psichico» e «spirituale» – tutt’altro che neutri in quel contesto, traslandoli concettualmente nel proprio campo d’azione. Controluce, quelle pagine sono un sismografo della situazione dei secondi anni cinquanta, dalla mostra di Mondrian del 1956 a quella di Pollock del 1957 (entrambe alla GNAM di Roma), senza ignorare le idee di Argan – non citato, salvo criticarlo aspramente quattro anni più tardi – sulla deriva «romantica» dell’Informale, o le mostre della Galleria Apollinaire di Guido Le Noci. Viene anzi da chiedersi se fra le letture di Castellani non ci fosse stata la Fantasia dell’arte nella vita moderna, pubblicata nel ’55 da Piero Dorazio (con cui avrebbe stretto una duratura amicizia), che argomenta una visione non dissimile delle avanguardie storiche.
Allo stesso modo, sembra necessario stabilire un rapporto dialettico fra queste pagine e il Discorso tecnico delle arti di Gillo Dorfles, che fu tra i più attenti interpreti del lavoro di Castellani e dei rapporti fra neoavanguardie ed estetica dell’industria: in un inedito del 1960 l’artista scriveva che «lo spazio è struttura, quindi direttamente determinato dalla tecnica», e sulla parola ‘tecnica’ puntualizzava che «all’infuori di essa agisce la fantasia, elemento negativo perché gratuito». Più di Manzoni, la cui improvvisa dipartita nel febbraio 1963 sarà un trauma incalcolabile (lo testimonia una pagina scritta a caldo che pare trascrivere un sogno bruscamente interrotto), Castellani insiste sulla necessità di un lavoro che non conceda niente all’emotività individuale, traducendo la superficie in «tautologiche commisurazioni».
Qui, forse, si intravede il risvolto engagé dell’opera di Castellani, altrimenti riducibile all’adozione di un lessico figlio dei tempi: la ricerca di un lavoro impersonale, tutto percezione ottica e spaziale, fondato sulla geometria e avulso da increspature emotive tacciabili di individualismo. Non si può andare oltre, tuttavia, nell’accordare a questa ricerca implicazioni di ordine politico, nonostante un testo a quattro mani con Enzo Mari. La vera preoccupazione di Castellani è di ordine linguistico e formalistico, dichiaratamente impermeabile a contenuti ideologici: ammettendo en passant la «materiale precarietà» dell’oggetto artistico, egli individuava il suo obiettivo nel raggiungimento di un non meglio chiarito «spazio interiore totale, privo di contraddizioni».
Questo assunto, però, lo avrebbe portato a ragionare in termini di spazio architettonico, conducendo la riflessione su un piano pratico. Un filo rosso, infatti, unisce la partecipazione a Lo spazio dell’immagine nel 1967 e a Lo spazio ridefinito, la mostra curata da Francesco Tedeschi nel 1998, in occasione della quale l’artista avrebbe definitivamente affermato che «lo spazio di riferimento di un’opera d’arte è lo spazio mentale dell’osservatore (…) perché l’opera d’arte stessa è dotata di un suo spazio intrinseco che travalica le sue dimensioni ed è di volta in volta suggerito o metafora di spazi non commensurabili fisicamente». In quei trent’anni, dopo montagne di tele estroflesse fabbricate con spirito di infinita variazione, Castellani era giunto a tirare le somme, ammettendo nel proprio lavoro «un’artigianalità molto minimale, il minimo necessario alla costruzione del quadro».
Ne scriveva nel 1994, in occasione di una mostra al MLAC della Sapienza a Roma, entrando finalmente nel vivo dei suoi procedimenti creativi: «io parto sempre dal perimetro del quadro, dove costruisco delle suddivisioni aritmetiche che sono il punto d’avvio (…) della programmazione vera, la sequenza intenzionale sta sul perimetro, quel che accade all’interno della superficie è casuale; la configurazione risultante è il prodotto delle progressioni, delle suddivisioni sviluppate sul periodo e proiettate all’interno». «Anche la scrittura – scrive in una lettera a Parmiggiani nel 1998 – richiede disciplina e fiato e consuetudine che io non ho, per cui mi pare saggio terminare qui…».