«Volevo che ciò che facevo fosse indiscutibile, non interpretabile, qualcosa che è e basta. Così ho iniziato a interessarmi della tela con il rilievo, sensibilizzando la superficie per renderla percettibile. L’ho posta nel modo più impersonale possibile, suddividendo la tela in parti uguali con un reticolo geometrico elementare, proprio perché una imperfezione o uno spostamento da un allineamento non creasse un turbamento di questo fare impersonale».
Lucido, rigoroso, seriale e ricercatore di grande coerenza concettuale, rimasto fedele a se stesso fino alla fine, Enrico Castellani (nato nel 1930 a Castelmassa, in provincia di Rovigo) se n’è andato in punta di piedi dal suo eremo di Celleno, nel viterbese, all’età di 87 anni. Forse, l’ha fatto misurando i giorni nelle sue surreali progressioni aritmetiche, passeggiando intorno alle mura del palazzo nobiliare appartenuto agli Orsini che nel 1973 volle acquistare in un borgo semi-abbandonato e che conservava su di sé ancora le ferite aperte del terremoto.

UN UNIVERSO RIDOTTO all’osso il suo, virato al positivo e al negativo, con un codice di spazio-tempo che sceglie di comunicare attraverso gli intervalli, gli interstizi, i vuoti e i pieni, il ritmo che si dà per sottrazione, per pulsazioni fisiche che imitano un dispositivo meccanico in verità inesistente. Per Castellani alla base c’è solo una tela e una ragnatela di chiodi che spingono sulla materia. Su tutto si stende il colore uniforme: è questo il «corpo» che si propaga dall’alfa all’omega, passando per una serie di punti infiniti, increspandosi sotto l’onda di sollecitazioni provocate da un homo faber meticoloso, che preferisce la pennellessa da imbianchino ai consueti pennelli, dando vita a una costellazione di accidenti e luoghi di tensione, a un particolare spartito battuto dai chiodi che estroflettono il supporto.

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Enrico Castellani nello studio di Celleno, foto Nataly Maier, 1984

Per Enrico Castellani, l’azzeramento del linguaggio era soprattutto una questione di combinazioni possibili del silenzio. Un silenzio bianco, interrotto da piccoli avvallamenti e mini crateri, come la superficie lunare, ma molto più ordinato, forte di una sua logica interna, che sembra cancellare l’autore e la presunzione della mano umana.

MINIMALISTA UTOPICO, grande sovvertitore dei limiti («la costruzione – diceva – comincia dalla soglia»), questo stesso artista che predicò e praticò la tabula rasa delle istanze emotive e delle allusioni esistenziali tipiche dell’Informale, che deviò verso la riformulazione monocroma della lingua dell’arte, distillò in una vita schiva, attraversata da poche parole e da diradate apparizioni pubbliche la sua teoria dell’astrazione, quella che lui chiamava «la concretizzazione delle idee».
Il suo alfabeto visivo prese il volo dopo gli studi di pittura e scultura in Belgio (Académie Royale des Beaux Arts di Bruxelles e poi la laurea nel 1956 in architettura presso l’Ecole Nationale Supérieure des Arts Visuels de la Cambre), quando Castellani approdò a Milano e incontrò un altro geniale sovversivo, Piero Manzoni. Prima, aveva guardato all’americano Mark Tobey, a quella fitta trama costruttiva della pittura, «pensavo che fosse arrivato a un punto tale di purezza che potesse essere una specie di partenza, che avesse eliminato ogni velleità espressiva». Poi, mentre il suo linguaggio va già definendosi ricercando l’origine, la piega, il rilievo reiterabile all’infinito, il contrappunto geometrico e musicale, con l’amico Manzoni si getterà in una nuova avventura. A rafforzare l’uscita dallo status quo dell’arte, ci sarà anche la galleria Azimut, nata in alcuni locali sotterranei di via Clerici 12. Inaugurò la sua attività il 4 dicembre 1959 con la mostra Linee di Manzoni, per poi proseguire con una collettiva internazionale (La nuova concezione estetica), un manifesto programmatico della strada intrapresa.

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L’ATTIVITÀ ESPOSITIVA fu accompagnata dalla pubblicazione della rivista Azimuth, laboratorio teorico dove precipitavano le istanze più innovative del clima culturale della Milano anni Sessanta e anche di gran parte di Europa. La traiettoria prescelta si sviluppava in diretta sintonia con il Gruppo Zero (esclusa la loro fiducia nella tecnologia).
Castellani, oltre agli amici oltreconfine, riconosceva un debito intellettuale anche ai più anziani Burri e Fontana. Ai tagli gestuali di quest’ultimo, però, così come alle performance comportamentali del giovane Manzoni, preferì una sensazione fisica, «epurata» dagli inciampi della realtà perché immersa in uno spazio razionale, dove la luce non incideva se non richiesta dal gesto stesso dell’artista che la calamitava sulla tela per realizzare il suo «impaginato». Un impaginato pulitissimo, che conduceva all’assenza della temporalità, favorendo il dispiegarsi di un orizzonte «costruito» con piccole sporgenze e, a volte, dal sapore optical (quando, per esempio, introdusse le righe nei quadri).

L’USCITA DALLA TELA, l’«estasi» del supporto diventerà realtà con Ambiente bianco del 1967. L’anno prima, alla Biennale di Venezia, nella sala personale, Castellani aveva fatto le prove generali di quell’immersione totale che cambiava i connotati al luogo. Poi, mise a punto l’installazione teatrale a Palazzo Trinci di Foligno, nella rassegna Lo spazio dell’immagine. La cancellazione di ogni appiglio visivo, l’assenza «cava» del mondo, spingeva a un disorientamento sensoriale, a un riazzeramento transitorio di sé.
Nonostante la sua vita quasi monacale spesa in quella fortezza di Celleno, a Enrico Castellani sono stati tributati onori ovunque nel mondo, con mostre e riconoscimenti prestigiosi. L’ultimo, il Praemium Imperiale giapponese nel 2010, unico italiano a esserne insignito. In quell’occasione, nel suo discorso, ringraziò chi prima di lui aveva «prodotto una rivoluzione nella concezione dello spazio e della superficie» (Fontana, Burri e, naturalmente, Manzoni).
A coronamento di una lunga carriera artistica, priva di scantonamenti, nel 2012 è uscito per Skira il catalogo ragionato della sua opera in due volumi.