La Corte d’Appello di Milano ha assolto ieri gli otto uomini in divisa imputati nel processo per la morte, il 14 giugno saranno dieci anni, di Giuseppe Uva. Varesino, 43 anni, operaio, Uva viene prelevato mentre sta spostando delle transenne in mezzo a una strada e portato in caserma.

Ai due carabinieri intervenuti sul posto si aggiungono sei poliziotti. Tutte le forze di pattugliamento della città si occupano di Uva quella notte, lui morirà in ospedale la mattina seguente.

Parlare di storie come questa fa affiorare alla mente sempre gli stessi interrogativi. È davvero possibile che un cittadino entri vivo in una caserma, in un carcere, in un posto di polizia, e ne esca morto? Per quale motivo, quando questo succede, è così difficile per le famiglie chiedere e avere verità e giustizia?

I vari processi per la morte di Uva sono l’emblema di tutto questo: tra testimoni mai ascoltati per anni, imputazioni coatte e sanzioni del Consiglio superiore della magistratura nei confronti dei primi magistrati inquirenti, questa vicenda ha subito lunghe pause e varie battute d’arresto.

La difficoltà a indagare appartenenti alle forze dell’ordine è nota, e la sentenza di ieri merita, almeno su un primissimo punto, una riflessione. Se il trattenimento di Uva non poteva fondarsi sulla necessità di identificarlo – era infatti già noto ai carabinieri -, nessun magistrato è stato avvisato, non sono stati compilati né verbali di arresto né di fermo, su quali basi è stato privato della libertà personale? Questa sentenza, pur senza conoscerne ancora le motivazioni, sembra affermare un principio pericoloso. E, cioè, che degli uomini di legge possono detenere a loro piacimento un cittadino al di fuori di ogni garanzia prevista dalla legge.

La Cassazione ci dirà se la decisione della Corte d’Appello potrà essere confermata. Nel frattempo rimane la grande amarezza di non esser riusciti a capire, nemmeno questa volta, cosa sia stato a provocare la morte di una persona che si trovava nella custodia di uomini dello Stato.

Dall’altra parte però la giornata di ieri ci consegna l’ennesimo esempio di coraggio e fiducia nelle istituzioni, e come sempre a farsi portatrice di parole così importanti è una di quelle donne, madri, mogli o sorelle, che negli ultimi anni hanno sostenuto queste battaglie. La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, ha commentato così la sentenza: «Il solo fatto che per la prima volta in dieci anni un procuratore della repubblica abbia richiesto delle condanne è per me una vittoria». Come a dire che si è sentita un po’ meno sola, che almeno questa volta non si è dovuta assumere tutto il carico di difendere la memoria di suo fratello, la sua famiglia, la legittima richiesta di sapere cos’è accaduto quella notte.

Ancora non sappiamo cosa sia successo a Giuseppe Uva, però possiamo sperare che quanto fatto da Lucia in questi anni non verrà sprecato. È un patrimonio collettivo, a disposizione di ognuno di noi. E per il quale tutti dovremmo ringraziare.