Davanti al dolore lucido di Paola Deffendi, ogni equilibrismo diventa insostenibile. Perfino i grandi interessi economici hanno bisogno almeno di una parvenza di onore: l’Italia e l’Egitto ne sono consapevoli. Motivo per il quale il giorno dopo dell’ultimatum lanciato dalla famiglia Regeni dalla sala stampa del Senato, il premier Matteo Renzi è costretto ad aggiungere alle solite promesse almeno un piccolo atto formale: passa il testimone al capo della procura di Roma, sperando così di trovare una strada per uscire dal vicolo cieco egiziano in fondo al quale tutto c’è tranne la verità sull’omicidio di Giulio Regeni.

«Il dolore della famiglia Regeni è il dolore di tutta Italia, siamo con il cuore, con la mente e con le azioni a sostegno della famiglia Regeni. – è il commento che Renzi affida ai giornalisti da Chicago – Ci fermeremo solo di fronte alla verità vera, non a verità di comodo. Lo dobbiamo a tutti noi». Poi però spiega che «la vicenda, molto complicata, è seguita dal procuratore della Repubblica di Roma, uno dei magistrati più importanti e autorevoli, da inquirenti di primo ordine. C’è il massimo impegno e il massimo sforzo, da parte delle autorità italiane, perché la magistratura italiana possa avere pieno accesso a tutte le carte, grazie al lavoro della Procura di Roma. Siamo impegnati perché ciò accada senza alcune tentennamento. È chiaro che speriamo che si possa finalmente trovare il colpevole o i colpevoli. Questo non servirà a Giulio o alla famiglia ma all’onore dell’Italia, all’Egitto e a chi sta soffrendo».

E così ieri il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone ha ritirato il pool di investigatori costituito da uomini del Ros e dello Sco che erano di stanza al Cairo – inutilmente – dal 5 febbraio scorso. Non è il ritiro per consultazioni dell’ambasciatore, né l’inserimento dell’Egitto nella black list dei paesi non sicuri, come richiesto dal senatore Luigi Manconi durante la conferenza stampa dei Regeni. Ma sembra comunque un atto per segnare il limite del 5 aprile, il giorno in cui a Roma dovrebbero incontrarsi (la data però è ancora da confermare) i vertici delle procure dei due Paesi e in cui i magistrati italiani si aspettano di ricevere i documenti investigativi richiesti da settimane e che non vennero presentati neppure nell’ultima riunione tenutasi al Cairo lo scorso 14 marzo. L’elenco è lungo: i video delle telecamere a circuito chiuso, i tabulati telefonici, i verbali delle testimonianze, il referto completo dell’autopsia e copia del verbale di ritrovamento del cadavere per verificare la compatibilità della descrizione della salma con quanto rilevato nell’esame autoptico. Ed è possibile che il pm Colaiocco, responsabile del fascicolo aperto a Roma, chieda anche informazioni sull’interesse del regime di Al Sisi riguardo i campi di ricerca affrontati nel lavoro di Regeni.

Contemporaneamente, ieri il procuratore generale egiziano Ahmed Nabil Sadeq ha fatto sapere di aver «ordinato la formazione di una squadra d’inchiesta» sotto la sua stessa supervisione, «per proseguire le indagini sull’omicidio al fine di giungere alla verità», «vista la diversità dello spazio geografico dove sono state rinvenute le prove durante le indagini sulla morte di Regeni». Quest’ultima affermazione si riferirebbe, stando a quanto riportato dall’agenzia di stampa egiziana ufficiale «Mena», al rinvenimento di uno zaino che Giulio avrebbe portato con sé la sera del 25 gennaio, quando venne sequestrato. Con una nota ufficiale, inoltre, il procuratore Sadeq ha riferito di aver preso accordi direttamente con Pignatone «per continuare a scambiare le informazioni fino ad arrivare agli autori di questo caso e a portarli davanti a un tribunale penale per essere puniti per quello che hanno commesso». Eppure proprio ieri è arrivato l’ennesimo tentativo di depistaggio – sia pur in forma di lettera anonima recapitata all’ambasciata italiana al Cairo, dunque neppure preso in considerazione dagli inquirenti italiani – che vorrebbe Regeni coinvolto in un traffico di reperti archeologici.

In ogni caso, anche il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha usato parole molto chiare in un’intervista al Corriere della Sera assicurando che il governo italiano compirà «passi conseguenti» nelle relazioni con il regime di Al Sisi, se il 5 aprile non ci sarà un «cambio di marcia» e non arriveranno risposte «convincenti». Quali siano questi passi sarà tema delle informative che il governo porterà al Senato, in data però ancora da fissare (con giuste proteste del M5S), e del question time di oggi pomeriggio alla Camera durante il quale, in diretta tv, i deputati di Sinistra italiana porranno un’interrogazione a risposta immediata probabilmente alla ministra Boschi, essendo Gentiloni in missione all’estero. L’esecutivo «intende o no richiamare l’ambasciatore per consultazioni?» O «dichiarare l’Egitto Paese non sicuro, adoperandosi affinché il governo del Cairo ponga fine alla costante violazione di diritti umani e civili nei confronti della popolazione?», sono le domande di Si a cui si attende una risposta.

C’è però anche chi, come l’ex ministra degli Esteri Emma Bonino – che nel luglio 2013, durante il golpe di Al Sisi, inserì l’Egitto tra i Paesi non sicuri – considera sbagliato il richiamo dell’ambasciatore (misura peraltro adottata nel dicembre 2014 durante la crisi dei due marò). «L’Egitto – ha detto Bonino ieri – deve soprattutto sapere che il governo italiano non mollerà, che andrà avanti sino a che non si conoscerà la verità vera, non quella che ci hanno propinato sinora».