Dopo due mesi di melina è ormai chiaro che le autorità egiziane non vogliono o non possono collaborare all’indagine; ed è chiaro che si tratta dell’ennesimo episodio di sevizie ad opera di organi di sicurezza dello Stato, in nome appunto della «ragion di Stato». Non va neppure esclusa l’ulteriore ipotesi di uno scontro fra le due principali mukhabarat egiziane, in frequente e spietata concorrenza tra loro. Cosa che non dovrebbe sorprenderci, se si pensa alle rivalità intestine ai servizi segreti in tanti Paesi occidentali. Ricordo ancora la battuta orecchiata anni fa a Washington: la mission prioritaria di ogni Agency era quella di celare alle altre le informazioni in proprio possesso. La National Security Agency, ad esempio, rifiutava di condividere le sue informazioni con i colleghi della Cia, definiti simpaticamente Tbar (Those Bastards Across the River) visto che la sede di «quei bastardi» stava aldila’ del Potomac. Richard Helmes, quando dirigeva la Cia, asseriva di intrattenere migliori rapporti con il Kgb che con la Nsa.

Adesso, concluso con un nulla di fatto l’incontro italo-egiziano della settimana scorsa, nei palazzi romani ci si chiede: che fare?

Anzitutto – consiglierebbe Barack Obama – «don’t do stupid shit». Le «stupidaggini» da evitare sono almeno quattro: 1° non rompere le relazioni diplomatiche (le ambasciate servono proprio nelle congiunture critiche); 2° non congelare le relazioni economiche e commerciali (miriadi di concorrenti sognano di rimpiazzare le imprese italiane); 3° non adire i tribunali internazionali (sarebbero incompetenti nella fattispecie); 4° non mischiare il caso di Giulio Regeni con quello dei due marò (ai quali la melina indiana, diversamente da quella egiziana, ha comunque finora risparmiato una formale condanna per omicidio). Sottolineo questi punti perché una certa Destra tende a solleticare l’innata retorica patria («armiamoci e partite!») senza pensare alle conseguenze in genere disastrose per noi.

Che fare dunque? Come prima cosa inserire subito l’Egitto nella lista dei Paesi a rischio per i visitatori italiani. Inoltre, in punta di diritto, l’Italia potrebbe convenire in giudizio l’Egitto presso un tribunale italiano, essendo ovvia la longa manus di una mukhabarat (dunque dello Stato) nell’omicidio di Giulio; ma sarebbe una procedura torpida, tortuosa e di scarso impatto. Esiste un’alternativa? Forse sì, e politicamente ben più efficace.

È noto che le dittature si trincerano dietro lo scudo della ragion di Stato ogni volta che violano diritti umani; e le autocrazie arabe, in particolare, si trincerano dietro la scusa del pericolo islamista.

Domanda: forse che Ben Ali, Asad, Mubarak, Saddam Hussein, il generale al-Sisi (e mettiamoci pure Guantanamo, Abu Ghraib e Bagram) sono riusciti a sconfiggere l’islamismo? Al contrario: torture, esecuzioni e detenzioni illegali hanno partorito falangi di nuovi terroristi. È giunta l’ora di dire basta al ricatto perché di ricatto si tratta. Ed è ormai un’arma spuntata.

Occorre evitare, tuttavia, che Giulio Regeni sia incasellato come un caso unicamente italiano. La battaglia contro l’uso sistematico di torture, detenzioni e sparizioni tocca valori e convenzioni universali. Il Comitato di Coordinamento egiziano per i Diritti e le Libertà – ad esempio – nel 2015 ha registrato 1840 casi di sparizioni, quasi tutte giovani vittime. Fossero anche un decimo, non basterebbero 184 vittime a suscitare l’ira della gioventù del mondo? Il nome di Giulio dovrebbe essere uno soltanto delle centinaia di nomi da scolpire via internet nella memoria collettiva.

La diplomazia italiana di concerto con quella europea avrebbe, volendo, un nobile compito da portare a termine nei due mesi prossimi: fare del 26 giugno 2016 – ossia del giorno che le Nazioni unite dedicano alle vittime della tortura in base all’imbelle Convenzione adottata il 26 giugno 1987 – un’occasione di risveglio delle coscienze, oggi pericolosamente attutite, alla brutale realtà della tortura.

E ovviamente l’Italia dovrebbe essere diligente e finalmente votare la legge sulla tortura che giace da tempo in parlamento. Una volta fatti i nostri compiti a casa, l’Italia potrebbe chiedersi: se siamo stati capaci nel 1998 di trascinare la maggioranza dei Paesi dell’Onu a firmare lo Statuto di Roma per istituire la Corte Penale Internazionale, non potremmo fare lo stesso per dire basta alla tortura? Solo allora potremo dichiarare di aver reso giustizia a Giulio Regeni.