Il quarantesimo anniversario della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro è stato celebrato ieri con la dovuta solennità, rispettando la liturgia del caso.

Il presidente Mattarella ha deposto una corona di fiori di fronte al monumento che, in via Fani a Roma, ricorda i cinque agenti uccisi. Con lui c’erano i presidenti di Senato e Camera, il governatore del Lazio e la sindaca di Roma, il capo della polizia Gabrielli.

Da giorni le reti tv sfornano speciali e dibattiti, i giornali sommano memorialistica e commenti.

Le alte cariche dello stato, dopo le note del Silenzio, hanno detto pochissimo. Il presidente Grasso ha accennato alla necessità di «non smettere di cercare la verità anche se scomoda», unica allusione istituzionale ai “misteri” che riempiono invece i media di ogni tipo.

Come se cinque processi fossero serviti solo a nascondere invece che a chiarire.

Nessuno si è scostato da un copione ripetuto infinite volte nei giorni del sequestro e nei decenni successivi.

Paolo Gentiloni ha detto che fu «il più grave attacco alla Repubblica». Tutti hanno insistito sulla necessità di «non dimenticare». Il capo della polizia Gabrielli ha usato i toni più duri: «Scrivere “dirigenti della colonna delle Br” è un pugno allo stomaco.

Riproporli in asettici studi televisivi come se stessero discettando della verità rivelata credo sia un oltraggio».

Negli studi televisivi, in centinaia di volumi sfornati a getto continuo in questi decenni, nei dibattiti sui social e sulla vetusta carta stampata, in realtà si discetta da quarant’anni di una cosa sola: di quanti misteri nascondano quei tragici giorni, di quali registi occulti manovrassero o sapientemente pilotassero le Brigate rosse.

Chi si prendesse la briga di spulciare i giornali e le trasmissioni tv dell’epoca scoprirebbe che nulla è cambiato.

I terroristi erano il male assoluto: a motivarli era solo delirante ferocia. Dietro la «geometrica potenza», che si è poi scoperto non essere affatto tale, agivano certamente intelligenze lucide e diaboliche, che di rosso non avevano proprio niente. Miravano a destabilizzare, non a rivoluzionare.

All’alta personalità dell’ostaggio, alla sua esemplare biografia fino al giorno del sequestro venivano dedicate parole commosse. Il Moro chiuso nella «prigione del popolo» di via Montalcini, con le sue lettere disperate e inutili, le sue argomentazioni lucide e inascoltate, andava invece cancellato. Lo fecero passare per pazzo e gli amici più intimi sottoscrissero.

Ora è semplicemente scomparso. Dimenticato nel tripudio dei ricordi. Rimosso.

In quei 55 giorni, solo Rossana Rossanda, su questo giornale, nei due articoli che oggi ripubblichiamo (leggi qui e qui, ndr), osò sfidare l’ordine a cui tutti obbedivano senza che nessuno dovesse neppure pronunciarlo apertamente.

Parlò di politica, non della guerra del bene contro il male.

Cercò di comprendere, non di dannare nel presente e poi nella memoria.

Mise in campo la lucidità e il coraggio necessari per rintracciare le radici delle Br e della loro cultura politica non nel limbo imperscrutabile della psicopatologia criminale ma in una componente storicamente non trascurabile del conflitto di classe in Italia.

Non lo fece per giustificare ma per capire. Fu la sola allora e lo è rimasta o quasi nei quaranta anni seguenti.

Non è stata una congiura del silenzio ma del fragore quella che da allora nasconde la verità sui 55 giorni più tragici della storia d’Italia.

Una pirotecnica sagra di scoperte clamorose, di ipotesi surreali, di presunti misteri accatastati senza parsimonia ha permesso di non chiedersi perché uno Stato pronto a concedere ai rapitori decine di miliardi, che si sarebbero inevitabilmente trasformati in potenza di fuoco e in cadaveri, preferì sacrificare Aldo Moro pur di non ammettere quel che era evidente: che le Br erano un’organizzazione politica.

Ha consentito di camuffare una scelta dettata dal calcolo politico, la necessità di evitare una crisi di governo, facendola passare per l’unica in grado di salvare la democrazia.

La stessa logica ha onorato ieri la memoria di Moro continuando a ignorare quel che scriveva dal «carcere del popolo».

Esaltando senza neppure farsi mezza domandina le scelte che lo condannarono allora.

Due articoli di Rossana Rossanda del 1978

Il 28 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda pubblica sul manifesto un corsivo intitolato «Il discorso sulla dc» con la celebre (e incompresa) affermazione sull’«album di famiglia» e le Br.

 Nei giorni successivi piovvero critiche, e rispose con questo articolo più lungo del 2 aprile successivo intitolato esplicitamente «L’album di famiglia»