Oggi torna in aula il processo per la morte di Francesco Mastrogiovanni (nella foto), il maestro elementare di Vallo della Lucania morto in un reparto psichiatrico dopo 87 ore ininterrotte di contenzione. Sì, perché succede anche questo nei civilissimi ospedali del nostro civilissimo paese: un uomo viene ricoverato e anziché essere curato, accudito, protetto, viene abbandonato per tre giorni – senza cibo né acqua – legato mani e piedi ai quattro angoli del letto e lasciato morire.

Il processo di primo grado si è concluso con una sentenza di condanna dei medici per sequestro di persona. Com’è stato possibile in questo caso giungere a un apprezzabile accertamento dei fatti e alla condanna di alcuni dei principali autori di quella infamia?

In queste ore, mentre la vicenda di Stefano Cucchi viene presa a paradigma di un sistema che tende ad autoassolversi, sembra che a Vallo della Lucania si sia compiuto un piccolo miracolo: un uomo sotto la custodia di un apparato dello Stato (e dei suoi medici e dei suoi infermieri), è morto, e oggi possiamo dire di sapere di chi sia la responsabilità. Ma noi, in effetti, fatichiamo un bel po’ a credere nei miracoli e pensiamo che, se nella vicenda giudiziaria di Mastrogiovanni si è arrivati alla verità si deve a due semplici motivi: tutte le 87 ore della contenzione del maestro di Vallo della Lucania sono state filmate da una telecamera di servizio, e il video è stato prontamente sequestrato dalla magistratura. Insomma, il fatto era lì – nudo e crudo, si potrebbe dire – e la sua inaudita crudeltà non era in alcun modo negabile o rimovibile.

Di conseguenza, il primo magistrato incaricato del caso – che è stato poi trasferito – si è comportato assai correttamente, senza trascurare alcun elemento, e raggiungendo il risultato preliminare del sequestro delle immagini (che altrimenti, nel giro di sette giorni, sarebbero state distrutte). E qui entra in gioco la funzione insostituibile di quel video, dove si può vedere l’immobilità forzata di Mastrogiovanni, e i suoi tentativi di liberarsi – sempre più deboli con il passare delle ore. E, poi, quei rantoli sordi che pure un video privo di sonoro sembra permettere di ascoltare, e quegli sforzi per respirare che si facevano sempre più crudeli e vani nelle ore immediatamente precedenti l’esalazione dell’ultimo fiato.

E, ancora, quel video ci dà la rappresentazione più vivida di cosa sia un atto di tortura. Più che l’averlo legato mani e piedi, più che averlo privato di cibo e acqua, è un’altra la scena che rappresenta l’orrore del trattamento inumano e degradante e della mortificazione della dignità. È la scena in cui, durante il secondo giorno di ricovero, un infermiere depone sul comodino vicino al suo letto un vassoio con il pasto contenuto in quelle scatole sigillate, proprie degli ospedali: il cibo è alla portata dei suoi occhi, ma troppo lontano per le sue mani imprigionate. E quel vassoio resta lì, per ore, fino a che un altro infermiere lo ritirerà intatto.

Dunque, la tortura esiste qui, nel nostro paese, e accade che venga attuata da chi esercita pubbliche funzioni, come quegli infermieri e quei medici. O come un vigile urbano, un agente della Polfer o un operatore di un campo profughi. Chiunque, cioè, eserciti violenza abusando della propria posizione di potere. Solo se il nostro ordinamento si dota del fondamentale presidio rappresentato dalla fattispecie penale di tortura, processi come questo non rischiano la prescrizione. Esito, quest’ultimo, sempre possibile quando i capi di imputazione riguardano lesioni, omissione di soccorso, omicidio colposo.
Se è vero che episodi del genere accadono – nelle carceri, nelle caserme, nei posti di polizia, negli ospedali – perché continuare a girare la testa dall’altra parte e fare finta che si tratti solo di «incidenti», di tragiche fatalità o, al più, di casi eccezionali?

No, fatti del genere non devono più accadere. E anche quando dovessero succedere, dobbiamo essere pronti a indagarli, a ricostruirne la dinamica, a segnalarne le cause ultime e il contesto che li consente. E a rendere esplicito un semplice concetto: una morte nelle mani dello Stato non può rimanere mai senza responsabili. Sarebbe davvero, e davvero, l’ingiustizia più grande.