Il processo militare contro il soldato Bradley Manning, accusato del più impressionante passaggio di informazioni segrete sulle guerre in Iraq e in Afghanistan, fra cui il video Collateral Murder sull’omicidio indiscriminato di 12 civili iracheni da parte di due Apache americani, è arrivato alle ultime battute.
Proprio ieri si è celebrata l’ultima udienza del processo, in cui lo stesso Manning ha preso la parola (l’udienza si è chiusa troppo tardi per poterne dare conto, ndr). L’ultima volta che aveva parlato era stato a febbraio, quando per la prima volta, dopo tre anni di carcere in condizioni durissime, grazie a una registrazione fatta avere di nascosto alla stampa, si era potuta ascoltare la limpida testimonianza del soldato che spiegava le motivazioni etiche alla base della sua decisione di far conoscere all’opinione pubblica i documenti classificati ai quali poteva accedere come ufficiale dei servizi segreti. «Ritenevo che il pubblico dovesse conoscere queste informazioni per suscitare un dibattito sul ruolo dei militari e della nostra politica estera», aveva detto ammettendo di essere la persona che aveva fatto filtrare i documenti. E rispetto al video che aveva fatto il giro del mondo dando visibilità internazionale a Wikileaks, spiegava di aver deciso di divulgarlo perché gli sembrava che i soldati americani si comportassero come «bambini che torturavano le formiche con una lente».
Manning, che è stato candidato al premio Nobel per la pace 2014 (le più di centomila firme raccolte sono state consegnate a Oslo proprio martedì), è stato già dichiarato colpevole di 20 dei 22 capi di imputazione a fine luglio dalla giudice colonnello Denise Lind, ma è stato assolto da quello più grave: «aiuto al nemico» che prevedeva l’ergastolo o la pena di morte. La pena per i restanti capi di imputazione potrebbe superare i cento anni, da cui però dovranno essere sottratti i più di tre anni che Manning ha già scontato, più 117 giorni che la giudice, in un giudizio parallelo, gli ha condonato per il trattamento subito in carcere (condizione che l’Onu ha definito «tortura», con continue umiliazioni, una sola ora d’aria al giorno e luce sempre puntata addosso).
In questa fase del processo, in cui la giudice deve stabilire la sentenza, la difesa del soldato venticinquenne sta cercando di far applicare tutte le attenuanti possibili, dimostrando che Manning era ingenuo ma bene intenzionato, e che i suoi superiori non erano intervenuti quando il giovane aveva dato segnali di disagio. Per questo hanno ricostruito, grazie ad alcune testimonianze, episodi in cui Manning aveva discusso con i superiori e aveva rovesciato un tavolino, o un caso in cui era stato ritrovato seduto a terra in posizione fetale, molto sconvolto. In almeno un’occasione aveva chiesto – inutilmente – l’intervento di uno psicologo per gestire il suo orientamento sessuale represso e in altri casi i suoi superiori non erano stati capaci di affrontare le sue perplessità etiche rispetto a episodi di guerra che l’avevano turbato.
Probabilmente Manning dovrà pagare con una pena durissima il suo gesto. Ma il quadro che viene fuori dal processo è quello di forze armate statunitensi in cui la professionalità e l’umanità non sono certo di casa.