Bei tempi quando un Neri Marcorè alle prime armi imitava Pier Casini e la sua libidine per un «grande centro» capace di controbilanciare l’onnipotenza di Arcore per poi allearcisi condizionandolo. Quasi 20 anni più tardi, dopo una lunga pausa in panchina, il Pier è di nuovo in campo e ancora una volta col miraggio del «grande centro». Ma stavolta l’ex alleato-rivale, ormai quasi in stracci, dovrebbe esserne parte integrante. Un centro tale da riunire le mille schegge dell’antico centrodestra non lepenizzate per poi trattare, ma da posizioni forti, con i lepenizzati in questione.

Questo è l’obiettivo finale dell’intenso lavorio diplomatico grazie al quale il redivivo spera di far convergere su Alfio Marchini ciò che resta dell’armata berlusconiana, sacrificando Bertolaso. L’intesa dovrebbe essere il primo passo verso la sempiterna «riunificazione dei moderati». Bertolaso, per la verità, giura di non avere la minima intenzione di fare passi indietro, anche se invia bigliettini dolci al belloccio: «Io e lui siamo gli unici a parlare dei problemi dei romani. E’ bene vedere se con Marchini sono possibili sinergie». Per inciso, la ricetta dell’ex capo della Protezione civile per «i romani» è bonificare il Tevere, renderlo balneabile e riempirlo di stabilimenti. Un lavoretto che al confronto Ercole a Frigia si riposava.

Per tornare all’auspicata «sinergia», si tratterebbe, per Marchini, di accontentarsi del posto eminente di gran visir. «Se Marchini è disponibile a darmi una mano con ruolo diverso da quello di sindaco io sono ben contento». Il bello è che proprio lo stesso disegno, a parti rovesciate, hanno in mente i numerosi tifosi di Marchini annidati nel cuore dello stato maggiore berlusconiano e di fatto concordi con il bel Pier.

Anche se non lo confesserebbero mai pubblicamente, sono in molti gli azzurri tentati dal cambio di cavallo. I romani, Tajani e Giro, la pensano così e il primo lo nasconde meno del secondo. Sarebbero orientati al medesimo modo i fedelissimi che contano davvero, Gianni Letta e soprattutto Confalonieri. Silvio no. Lui in Bertolaso ci crede e a tutt’oggi non ha intenzione di mollarlo. Però mai dire mai, tant’è vero che in privato alcuni degli ufficiali più vicini al capo esitano: «Berlusconi deciso a sostenere Bertolaso a tutti i costi? Insomma… Fino a un certo punto».

Quel «certo punto» ha una definizione precisa: sondaggi. Sono loro che, impietosi, profetizzano il disastro per il candidato di Arcore. Nella migliore delle ipotesi Bertolaso sta 7 punti e passa sotto Meloni, anche se batte Marchini di misura. Il peggio è che non ne azzecca una. Quando si misura coi programmi finisce a promettere la resurrezione del biondo Tevere. Quando fa l’amabile, confessa che la moglie «potrebbe votare per Giachetti».

Il cambio di cavallo sarebbe nell’ordine delle cose. Comprendere la resistenza di Berlusconi non è di conseguenza facile. Almeno in parte, tiene su Bertolaso per evitare una frattura nel partito altrimenti quasi certa. Se i centristi e l’azienda gli suggeriscono di portare acqua al mulino stanco di Marchini, l’intero gruppo dirigente del nord è di parere opposto. Se cade Bertolaso, i voti azzurri devono rimpolpare Giorgia. Giovanni Toti lo dice apertamente: «Bertolaso è il nostro candidato, se resta in campo Fi lo sosterrà fino in fondo. Ove si ritirasse, l’unica scelta sarebbe andare sulla Meloni».

E’ probabile che evitare uno scontro interno che dilanierebbe quel che resta del partito azzurro sia una delle ragioni che spingono Berlusconi a resistere sul cavallo che sembra al momento il più perdente. L’altra possibilità è quella di cui si dice certa Giorgia Meloni: «Berlusconi vuole solo farmi perdere, ma se decide di perdere con Bertolaso non è più il leader del centrodestra. Un accordo tra Bertolaso, che io prenderei come city manager, e Marchini sarebbe un nuovo Nazareno». I leghisti sono più secchi: «Bertolaso è la prova che il Nazareno c’è ancora». Come finirà a Roma non si sa. Il nuovo centrodestra, invece, pare proprio già finito.