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Casi filologici, copisti distratti e tipografi pasticcioni

Casi filologici, copisti distratti e tipografi pasticcioniMaestro di Guillebert de Mets, illustrazione per Giovanni Boccaccio, Decameron, I 6, 1430-1450, Parigi, Bibliothèque de l'Arsenal

Casi filologici In «Storie d’amore per lo studio» (Einaudi) Paolo Pellegrini restituisce alla filologia dei testi la sua centralità di metodo tramite una scelta di esempi (anche curiosi), da Dante a Manzoni a Buzzati

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 1 ottobre 2023

Potremmo anche infischiarcene della filologia, se Benedetto Croce avesse avuto ragione. E cioè se la poesia fosse davvero solo espressione di un sentimento còlto nella sua purezza e universalità, una gemma al di là del tempo e dello spazio, una dimensione nella quale non dover tener conto di quegli elementi «allotrii» (così li chiama), come i generi letterari, le componenti storico-sociali e biografiche, o la dimensione fisica della pagina. Insomma, sarebbe forse salutare potersi sbarazzare di certa pedante filologia! Ma su questo Croce aveva torto, e per fortuna esistono ancora studiosi capaci di appassionare gli studenti e insegnare i rudimenti di un lavoro, quello del filologo, che etimologicamente indica «colui che ama la parola».

Storie d’amore per lo studio Primi passi per capire i testi che leggiamo (Einaudi «PBE. Mappe», pp. XIX-194, euro 21,00) è il titolo di un recente libro di Paolo Pellegrini, docente all’Università di Verona. Sin dalle prime battute, il professore filologo invita i suoi lettori a porsi in ascolto della parola che i classisanno offrirci, senza preclusione o prevaricazione, non interrompendo né manipolando. Tuttavia, egli non ci sta invitando ad aprirci all’inaspettato, a lasciare che le parole dei testi ci attraversino, o a non pretendere di capire il progetto di un’opera o quanto l’autore intenda dirci, come certe immarcescibili mode new age, del tutto slegate come sono dalla dimensione storico-testuale, vorrebbero. No, Pellegrini ci sprona ad ascoltare la parola dei classici, insistendo su un propositivo lavoro di scavo e di comprensione del messaggio che l’autore affida all’opera. La ricostruzione della dimensione testuale è pertanto essenziale. E Storie d’amore per lo studio, pur avendo uno scopo didattico e divulgativo, racconta diversi e significativi casi filologici, che svelano il «dietro le quinte» della produzione delle opere letterarie: dalla lenta e scrupolosa revisione dei testi sino alle fasi redazionali e di stampa, dove a commettere un inspiegabile refuso può essere un redattore maldestro.

È questo per esempio il caso del racconto Il primo giorno in Paradiso di Dino Buzzati, contenuto nella seconda edizione della raccolta In quel preciso momento (1955). Nella descrizione del gioioso ingresso in paradiso del personaggio, Buzzati sembrerebbe aver utilizzato l’aggettivo «sgomentanti», ma in accezione positiva, come sinonimo cioè di «piacevole sgomento». Ecco il passo: «mai sentiti suoni tanto puri, melodie così sgomentanti». Eppure, l’aggettivo, mai attestato nella lingua italiana con significato positivo, è frutto di un grossolano errore. Un attento scavo nelle diverse redazioni del testo ha portato alla luce la versione originale e spiegato l’altrimenti incomprensibile uso. Componendo le bozze in colonna, il tipografo giunse a fine riga e fu costretto ad andare a capo sillabando l’aggettivo e omettendo per distrazione quanto seguiva («melodie così sgom-bre di nostre miserie»). In fase di stampa, si avvide dell’errore e rammendò come poté cancellando il sostantivo «miserie» e completando di suo pugno il moncone. Per quanto minuto e marginale, l’esempio evidenzia la centralità della lezione testuale e invita a diffidare persino di quella che i filologi chiamano «l’ultima volontà dell’autore», dal momento che il racconto fu licenziato dallo stesso Buzzati, che non si accorse però dell’incauto rammendo.

Il libro di Pellegrini raccoglie molti altri casi dal valore esemplare, che riguardano le opere di autori del passato come Dante, Boccaccio, Francesco Colonna, Foscolo, Leopardi e Manzoni. Proprio di quest’ultimo, si racconta la difficile impresa di stabilire il testo definitivo dei Promessi sposi, dopo la «risciacquatura in Arno». Il processo di revisione e ripulitura a cui fu sottoposta la Quarantana (cioè l’edizione datata 1840) disorientò gli stessi editori dell’opera. Manzoni continuò a correggere il lavoro in corso di stampa, e i fogli già pubblicati con una versione precedente non furono gettati via dal tipografo ma mescolati tutti insieme. Il risultato fu così la messa in vendita di copie che non avevano accolto le correzioni e di altre che invece lo avevano fatto. Per quasi un secolo, i Promessi sposi furono letti in versioni non pienamente d’autore e spesso alterate da ulteriori errori a firma degli stampatori che via via si erano succeduti nel tempo. Solo nel 1942 fu approntata la prima edizione critica dell’opera per mano di due valenti filologi, Michele Barbi e Fausto Ghisalberti, che tentarono l’ardua impresa di riconoscere i fogli contenenti l’ultima versione d’autore e di accorparli in un unico testo. L’invito della filologia, e così dei quattordici capitoli che compongono questo bel libro di Paolo Pellegrini, è sostanzialmente quello di non dare mai nulla per definitivo, perché solo studiando la storia di un’opera e le diverse stesure è possibile comprendere il valore di ogni singola parola.

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