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Casey Cep, condanna all’incompiuto: la storia di una irresoluta

Casey Cep, condanna all’incompiuto: la storia di una irresolutaGregory Peck nel ruolo di Atticus Finch in «To Kill a Mockingbird», adattamento di Robert Mulligan (1962) da «Il buio oltre la siepe»

Fra novel e report Scovando negli anni meno conosciuti dell’autrice premiata al suo esordio con un successo che ne paralizzò la carriera, Casey Cep porta anche a compimento il reportage che l’altra non riuscì a terminare: «Ore disperate», da minimum fax

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 17 gennaio 2021

Gregory Peck deve alla letteratura statunitense due dei suoi ruoli più iconici, due personaggi che non potrebbero essere più diversi tra loro: il demoniaco capitano Ahab nel Moby Dick di John Huston e l’avvocato Atticus Finch, principe del foro per eccellenza, nell’adattamento a opera di Robert Mulligan del celeberrimo romanzo di Harper Lee, Il buio oltre la siepe. Eletto a più grande protagonista della storia di Hollywood dall’American Film Institute nel 2003 anche grazie all’interpretazione che valse a Peck il premio Oscar come miglior attore protagonista, Finch divenne con gli anni una figura talmente popolare e influente da essere preso a oggetto di studio da parte di numerosi giuristi e filosofi del diritto.

Benché l’ambientazione forense sia molto più sviluppata nella versione cinematografica che nel romanzo, l’autrice affermò di aver sviluppato una fascinazione per i tribunali recandosi, insieme al padre, alle udienze aperte al pubblico in cui ai presenti, sistemati in platea e in galleria come in un cinema, veniva fornito del ghiaccio per combattere il caldo asfissiante del Sud. Il prezzo d’ingresso per poter vedere Boris Karloff in Frankenstein era di dieci centesimi, e, tutto sommato, un tribunale poteva fornire gratuitamente lo stesso tipo di emozioni.

Due i romanzi mai usciti
La storia di Harper Lee è nota: Il buio oltre la siepe, uno dei libri di maggior successo della letteratura statunitense contemporanea (e uno dei più controversi) fu anche l’ingombrante pietra tombale sulla carriera della sua autrice, che, dalla pubblicazione dell’esordio nel 1960, quando aveva trentaquattro anni, alla morte, sopraggiunta a ottantanove anni nel 2016, non riuscì a scrivere praticamente nient’altro. Cinquantacinque anni di silenzio da parte di quella che, all’epoca, era la scrittrice più famosa d’America, protagonista di una rivelazione inaspettata che fu un vero terremoto per il mercato editoriale.

A quel che sappiamo, però, Lee lavorò ad almeno due romanzi in quegli anni: nessuno dei due vide mai la luce, mentre l’autrice scivolava sempre più rapidamente in una vita da reclusa e nella nevrosi indotta dal suo perfezionismo esasperato, che le imponeva di produrre un’opera all’altezza del successo stellare dell’esordio. Il primo di questi romanzi, The Long Goodbye, voleva essere il seguito del Buio oltre la siepe. L’altro, The Reverend, era invece dedicato a un incredibile fatto di cronaca nera dell’Alabama natio. E proprio alla gestazione travagliata e incompleta di questo secondo lavoro è dedicato Ore disperate, l’ultimo processo di Harper Lee (traduzione di Sara Bilotti, minimum fax, pp. 393, € 19,00) esempio pregevole di giornalismo investigativo letterario pubblicato originariamente nel 2019 da Casey Cep, firma del settimanale The New Yorker.

Il reverendo assassino
I fatti che ispirarono il tentativo fallito di Lee, e che vengono presentati con dovizia di particolari nel libro di Cep, hanno dell’incredibile, e sembrano usciti da un romanzo nero di dubbia qualità. Anni Settanta, Alexander City. Il reverendo Willie Maxwell, oratore d’eccezione e fanatico delle polizze sulla vita, viene accusato di aver ucciso cinque membri della sua famiglia proprio per incassarne i premi assicurativi. In un assurdo cortocircuito tra la legge e gli interessi delle compagnie, la sua colpevolezza non verrà mai provata. Sarà uno dei parenti delle vittime a porre fine alla sequela grottesca e paradossale di processi inconcludenti uccidendo il reverendo con tre colpi alla testa durante un’udienza pubblica davanti a trecento testimoni.

Nel ricostruire la vita dell’autrice e quella dei protagonisti della vicenda, tra i quali merita una menzione l’avvocato Tom Radney, difensore sia del reverendo che, in seguito, del suo assassino, e precursore della lotta per i diritti civili, Cep presenta al lettore fatti e considerazioni personali in egual misura, con uno stile talvolta cronachistico, ma più spesso lirico e affabulatore.

Pur non lesinando critiche (a volte francamente incomprensibili) all’ingombrante amico d’infanzia di Lee, Truman Capote, e al suo stile, l’autrice si situa saldamente nel filone della cosiddetta non-fiction novel, di cui proprio Capote fu un auto-proclamato pioniere. Il suo A sangue freddo, capolavoro del genere a prescindere dalle accuse (fondate) di contenere molta più fiction di quanta il suo egocentrico autore fosse disposto ad ammettere, è un paragone imprescindibile per Cep come lo fu per Lee.

Il debito con Capote
Poco dopo la pubblicazione di quella che sarebbe rimasta la sua unica opera, Harper Lee andò in Kansas insieme a Capote su incarico del New Yorker come assistente sul campo durante le indagini sulla strage della famiglia Clutter. Il padre di Lee, oltre a essere stato d’ispirazione per la figura mitica di Atticus Finch, era anche l’editore del piccolo Monroe Journal, e ha ragione Cep ad affermare che la scrittrice era stata influenzata sin dalla tenera età dal mondo del giornalismo. Ma è difficile dubitare del fatto che, visto il notevole successo di A sangue freddo e il grado di coinvolgimento dell’autrice nella sua genesi, Lee non avesse coltivato il desiderio di cimentarsi con la non-fiction, considerato anche il complesso rapporto di stima e competizione che legava i due amici. D’altro canto, Cep, la cui lodevole rigorosità non deriva certo dalle tecniche di Capote, dimostra anche di non poter fare a meno della bella scrittura, e di essere apertamente influenzata tanto dalla cruda schiettezza quanto dalla vena elegiaca caratteristica della letteratura bianca del Sud: la splendida introduzione alla vicenda, in cui si narra dello scavo di un lago artificiale, mostra più di un debito nei confronti dell’incipit del dileggiato predecessore.

Proprio nel chiaro rapporto con il controverso esempio di Capote, Ore disperate si legge come una sorta di meta-narrazione, che si addentra non solo nei meccanismi della scrittura tout court, ma cerca apertamente il confronto con il suo antecedente più prossimo, e addirittura lo sfida.

Una operazione ambiziosa
Certamente parziale (la tensione dell’autrice verso la figura di Harper Lee è evidente) non perciò la ricostruzione è meno valida, perché nella ricchezza di informazioni sull’omicidio del reverendo Maxwell, sui suoi protagonisti e sulla sempre più riservata Lee, disposte ordinatamente per tramite di una voce autoriale rigorosa e suadente a un tempo, Cep mira a un duplice obiettivo: scrivere il resoconto degli anni più sconosciuti di una delle autrici più famose nella storia della letteratura americana, e riuscire dove quest’ultima ha fallito, portando a compimento il reportage mai terminato. Un’operazione certamente ambiziosa, che posiziona con successo Ore disperate sul confine tra il true crime e la biografia permettendo al romanzo, grazie a un montaggio esperto e avvincente, di prendere il meglio da entrambe le tradizioni.

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