Continua a mantenere caratteri propri e distintivi l’architettura giapponese contemporanea, nonostante i processi di occidentalizzazione abbiano raggiunto l’apice con la globalizzazione e in tutto l’Oriente sia palese l’omologazione culturale che ne è derivata.

Si prenda la sua originale inclinazione nel guardare il futuro. Trascorsa l’utopia urbanistica che segnò gli anni sessanta – dall’Ocean City di Kikutake, all’Helix City di Kurokawa, al piano per Tokyo di Tange – l’abitare non è più immaginato dentro complesse megastrutture, ma nelle città esistenti dove, a una scala urbana più ridotta, è possibile scoprire condizioni del vivere più resilienti e adatte per gli anni a venire. È nell’ambito dell’edilizia residenziale privata che la produzione di oggetti dal controllato valore simbolico e comunicativo si rivela con chiarezza e autenticità: il risultato migliore dell’architettura giapponese.

Case in Giappone di Francesca Chiorino (Electa «Architettura», pp. 223, euro 60,00) ne passa in rassegna per la seconda volta (la prima risale al 2005 per lo stesso editore) un numero rappresentativo. Con un saggio introduttivo semplicemente aggiornato, e qualche ripetizione (le schede di Isozaki e Sejima), la raccolta si apprezza non quale catalogo aggiornato, ma come una riflessione concisa su un tema che rimane centrale nella cultura architettonica nipponica. In attesa di altre analisi, è evidente anche in questo volume che la casa giapponese conserva i motivi della «forma organica»: quell’«insieme vitale» che già Wright aveva individuato come elemento specifico dell’architettura e delle arti del Sol Levante, e che può essere rintracciato di là dello stile.

Per l’architetto americano, infatti, l’«organico» risiede nell’«organizzazione ben definita di parti o elementi in un’unità superiore». Il rispetto «religioso» della natura fa parte integrante di questa «unità» e la casa diventa, come scrisse Karl Löwith , lo spazio per eccellenza, che ha «una cura, una purezza, una calma e una bellezza affidate alla sobrietà e all’armonia delle manifatture» che la rende inconfondibile. In fondo è questo il segno profondo dell’ossequio alla tradizione.
Chiorino, nel saggio introduttivo, ne ripercorre i passaggi salienti facendo cenno alle arti e all’estetica orientali: «i cerimoniali del vuoto», «la villa di Katsura». Anche nelle situazioni urbane più difficili, lì dove la dimensione del suolo non consente di costruire edifici di più grandi dimensioni, l’alta qualità del progetto è perseguita con rigore e perfezione e con l’attenzione di tenere annodati i fili della storia. Che cos’è la Casa del tè di Arata Isozaki (1992) se non la creazione di un minuto spazio nel quale officiare una cerimonia che è «un ponte verso il passato» (Everett F. Bleiler)? Più complesso è trovare il significato degli antichi legami nella citatissima residenza di Ryue Nishizawa a Tokyo, nella quale un «paesaggio in miniatura» di piante trova spazio su ognuno dei cinque ridottissimi piani sui quali si distribuiscono le funzioni domestiche. Tuttavia, se immaginiamo che in meno di settanta metri quadrati di superficie calpestabile tutto soddisfa i bisogni non solo fisici, ma anche mentali di chi vi abita, troveremo la risposta a molti dei nostri quesiti intorno alla costruzione dello spazio domestico giapponese. Anche nell’House NA (2011) di Sou Fujimoto, situata in un quartiere densamente popolato della capitale, le obbligate e limitate condizioni del terreno non impediscono di comporre una singolare combinazione di volumi aggregati tra loro all’interno dei quali è radicalmente reinterpretato l’Existenzminimum. Sulla stessa lunghezza d’onda si trova Jun Igarashi con la sua casa ad Asahikawa (2016): apparentemente anonima nell’estrema semplicità dei suoi elementi, se non fosse che anche in questo caso al centro c’è l’uomo con i sui problemi di come difendersi da un clima ostile.

Ha ragione Chiorino ad affermare che il fenomeno di queste case spesso «introvertite» nasce dalla scarsa disponibilità di aree oltre che dalla consapevolezza di un possibile disastro naturale o, più in generale, dal garantire il migliore comfort psico-fisico per chi le abita. Per risolvere questo tipo di problemi le soluzioni adottate sono sempre quelle «più orientali»; in altri termini: case «più leggere e meno vistose». È questa l’intenzione che si può scorgere nella Casa sul monte Daisen (2011) di Keisuke Kawaguchi con K2-Design, progettata come una sequenza lineare di ambienti collegati tra loro che occupano gli spazi vuoti tra gli alberi di un fitto bosco, oppure il caso di Go Hasegawa e Shu Yamamoto che in un progetto del 2010, nel mezzo di una foresta, a pochi chilometri da Tokyo, sollevato un unico piano residenziale a circa sei metri di altezza da terra sorreggendolo con sottili pilotis di acciaio, creano al di sotto una superfice coperta disponibile per incontri conviviali e circondata sui quattro lati dalle fronde degli alberi.

Sono trascorsi più di vent’anni da quando Kazuyo Sejima, nella foresta presso Chino, collocava il suo cilindro bianco, «una sorta di tumulo» (Chiorino) indifferente a tutto ciò che accadeva intorno nonostante le ampie aperture vetrate sull’involucro. Appare evidente che la generazione più giovane esprima una nuova sensibilità nei confronti del paesaggio. Esemplare il caso di Makoto Takei e Chie Nabeshima (TNA Architects) che con la loro Passage House (2008) ricercano una relazione simbiotica con la natura attraverso un volume basso a ferro di cavallo sporgente da un pendio boscoso che si volge verso la valle con finestre a nastro.

Nella raccolta non si dimentica di elencare architetti come Toyo Ito, Satoshi Okada, Tadao Ando, Kengo Kuma fino a Terenobu Fujimori. È nella «volontà di forma», tutta vernacolare, di quest’ultimo che l’essenza del Giappone sembra resistere con più determinazione, ma osservando le sue Case da tè sugli alberi o le altre costruite in materiali naturali ci si chiede: fino a quando potrà ancora esistere quest’ordinata differenza?