L’aspetto è quello di una vecchia cascina, ma lungo le mura esterne compaiono tentacoli colorati, squame, creature dalle tinte fantascientifiche disegnate dai tanti artisti che sono passati di qui. Non poteva esserci omaggio migliore perché, rispetto al quartiere in cui sorge, Cascina Torchiera, centro sociale milanese attivo dal 1992, risulta senz’altro un luogo alieno: siamo a due passi dal Cimitero Maggiore e a meno di sei chilometri dai relitti dell’Expo, nella fantasmatica Zona 8 – un distretto di strade silenziose, condomini popolari, lontano dal centro e dalle «formiche frenetiche assetate di benessere», per dirla con Dino Buzzati. Per il Comune, Torchiera rientra nella lista dei 25 «beni in disuso» da riqualificare e mettere a bando, eppure basta muovere qualche passo nel suo cortile, tra le famiglie e i ragazzi che sorseggiano birre seduti ai tavoli e si godono questa placida giornata autunnale, per rendersi conto che proprio in disuso non è.

«FOSSE UN LUNEDÌ qualunque, senza pericoli o restrizioni», racconta Francesca Falcone, una dei dieci volontari che si prendono cura di questo luogo, «questo pomeriggio ci sarebbe un concerto e più tardi la cena popolare». Trentasei anni, occhi scuri e vivaci, un sorriso largo che si intuisce sotto la mascherina, Francesca dice di aver scoperto Cascina Torchiera dieci anni fa, durante gli studi universitari. «Stavo completando un master in “Didattica della lingua italiana”, desideravo fare pratica e questo era il luogo ideale: non solo perché frequentato da molti degli stranieri che vivono nel quartiere, ma anche perché fino al 2018, prima che lo sgomberassero, qui accanto, in via Barzaghi, sorgeva un campo nomadi. Venivano ogni giorno moltissimi bambini, di tutte le età. Facevamo lezione lì», dice, indicando una stanza al piano superiore della cascina. «Mi ricordo quando i bambini arrivavano, al mattino, tutte quelle voci che riempivano il cortile».

Le lezioni di italiano, però, non sono l’unico contributo di Francesca, che insieme a Beatrice e ad altri volontari coordina la cucina di Torchiera: «Organizziamo molti pranzi e cene popolari, sono momenti di festa a cui partecipa l’intero quartiere». E se cucinare per sessanta persone alla volta non sembra impresa da poco, farlo senz’acqua lo è ancor meno. Nel ’95 infatti, poco dopo l’occupazione, quando Torchiera cominciò a essere popolata dai collettivi femministi, dagli artisti di strada, dalle famiglie e dagli operai del quartiere, dai giocolieri, dai saltimbanchi, dai reduci degli ospedali psichiatrici che approdavano qui perché non avevano altro posto in cui andare, il Comune tagliò ogni fornitura. «Da quel momento ci si è sempre arrangiati», continua Francesca, «prima delle cene popolari, per esempio, carichiamo una decina di cisterne d’acqua su un furgoncino e andiamo a riempirle al cimitero. I primi tempi non è che il custode fosse troppo contento, poi però si è affezionato a Torchiera e anzi, sa bene che a cena c’è spazio anche per lui».

PROPRIO GRAZIE A QUESTA costellazione di forze che animano la cascina, lo scorso marzo è nata la Brigata Davide Pedretti, un gruppo di volontari che cerca di far fronte ai problemi causati dall’emergenza Covid. «Distribuiamo pacchi alimentari nell’intera Zona 8», racconta Gian Marco Duina, «facciamo la spesa per gli anziani, per le famiglie e le persone che non possono uscire o si trovano in situazioni di difficoltà, anche economiche». Ventisei anni, le mani sprofondate nelle tasche della felpa, una nota di timidezza nella voce, Gian Marco parla dell’esperienza da coordinatore della Brigata senza autocompiacimenti, come a dire che Torchiera ha sempre fatto parte del quartiere, ed è normale che anche a porte chiuse, anche in piena emergenza e con il mondo capovolto dall’epidemia, si mobiliti e lasci un riverbero.

Anche altri centri sociali milanesi, come Ri-Make e Lambretta – tutti nominati «beni in disuso» dal Comune – in questi mesi hanno dato vita a brigate di volontari, che si sono poi aggregate in modo da creare un’unica rete solidale. «Quel che vogliamo evitare è l’assistenzialismo» spiega Gian Marco, mentre ci mostra le stanze in cui, accanto a vecchi rastrelli, carriole e strumenti da cantiere, compaiono pile di pacchi targati Emergency, che proprio alle brigate si appoggia per distribuire aiuti nelle periferie. «Ci piace l’idea di mettere in connessione il quartiere, anche in un momento in cui sembrerebbe impossibile». Un desiderio non così utopico. C’è chi ha approfittato della farina ricevuta per cucinare chili di pane da distribuire nell’intero quartiere, o chi, come Hajib, che nei mesi scorsi ha perso il lavoro e ora vive in un furgone, si è messo a disposizione della Brigata. «Ora consegna con noi la spesa a domicilio: oltre ad aiutarci, è un modo per lui di non isolarsi e mantenere i contatti».

MENTRE CI LASCIAMO alle spalle il cortile e saliamo le scale della cascina, ci viene il dubbio che quello con il Comune sia un conflitto insolubile: che uno spazio come Torchiera, con i suoi incroci di vite e di storie, il suo carico di solidarietà che si propaga per l’intero quartiere, non sarebbe potuto nascere dalla mente di qualche architetto o attraverso assegnazioni burocratiche, ma solo per volere dei cittadini, per il desiderio spontaneo, autentico di stare assieme, di riprendersi un pezzo di città. Un luogo alieno insomma, come del resto suggeriscono le bizzarre sculture sparse per la biblioteca della cascina – creature fantastiche assemblate con marmitte, bulloni, ruote e altri residui di motociclette.
AD ACCOGLIERCI in questa «Biblioteca Mutoide» troviamo Tobia D’Onofrio: quarantatré anni, giornalista e tenace lettore, Tobia racconta di essere approdato a Torchiera intorno al 2010, quando i volumi presenti sugli scaffali giacevano ancora stipati dentro gli scatoloni. «Si tratta in gran parte di volumi donati dall’editore e saggista Antonio Caronia», racconta Tobia. «Al tempo però non ne sapevo nulla. Un giorno, per puro caso, ho scoperto queste pile disordinate di libri, mi è bastato sfogliarne qualcuno per rendermi conto che si trattava di una collezione ricchissima, da fare invidia a qualsiasi cultore di fantascienza». Tra i volumi che Tobia ha pazientemente ordinato compaiono autori come Philip K. Dick, Ray Bradbury, Ursula Le Guin, la rivista Robot, antologie del Premio Hugo, trattati cyberpunk e innumerevoli guerrieri delle galassie. Se allora questa cascina sia una diapositiva del passato o una speciale capsula del tempo, capace di proiettarci in un futuro possibile, è difficile dirlo. «Forse entrambe le cose» suggerisce Tobia. E mentre le ombre della sera si allungano nella stanza, il nostro sguardo cade su una rivista. «Quella copia ha le pagine annerite» dice Tobia, «è sopravvissuta agli anni, alla polvere e persino a un incendio. Ma ancora resiste». Il titolo: Un’ambigua utopia.

*Questo testo è l’esercitazione finale di un corso sul reportage tenuto da G.Battiston e M.Loche per «Collettiva».