I commenti dei quotidiani americani su Hillary Clinton come il possibile prossimo presidente si sono focalizzati sulla politica interna, sulle differenze con i candidati del partito repubblicano. Da un lato c’è un’anziana, ricca donna bianca che vive in case sfarzose, si fa pagare cifre stratosferiche per i seminari ai broker di Wall Street e ottiene cospicue donazioni dai governi stranieri per la Fondazione di Bill. Dall’altro lato vi sono due ispanici, e l’ultima risorsa dei Bush, il moderato Jeb.

All’apparenza c’è un’affinità incredibile tra i protagonisti politici che si disputeranno la Casa Bianca ma poi i programmi dei due schieramenti rivelano una polarizzazione tra i due partiti, quale non c’era dall’epoca della Guerra Civile (ne è convinto Paul Krugman nel suo editoriale, New York Times, 13 aprile). Le contrapposizioni sono le solite: assistenza sanitaria, salario minimo, le tasse, la riforma finanziaria del 2010 e qualsiasi altra intrusione del governo di Obama contro le tradizionali rendite di posizione dei grandi manager repubblicani.

Sono costoro che per la prima volta hanno accettato di puntare a eleggere un esponente di una minoranza etnica nel presupposto: 1.di attrarre l’elettorato non bianco; 2. di poterlo orientare più facilmente di un politico bianco di lungo corso. Era il medesimo calcolo fatto da parte del big management finanziario all’epoca del primo mandato di Obama. Il sito Open Secrets fornisce i dati dei finanziamenti ricevuti dai due partiti: nel 2008 la scommessa su Obama, considerato filo Wall Street, si concretizzò in donazioni del 57% per i democratici ri del 42% per i repubblicani mentre nel 2012 quando Obama ha perso Congresso e Senato è stato l’inverso: 31% e 69%.

D’altra parte dal 2008 in poi crescente è stata la delusione nei confronti di Obama, e per ogni sua mossa. Genuinamente incomprensibile è apparsa la sua pretesa di affermare l’autonomia della politica in una terra dove da sempre esiste la subordinazione della politica all’economia. E’ una pretesa che solo recentemente Obama ha potuto apertamente cavalcare, da quando ormai non era più ricattabile né dal suo partito e né dai repubblicani che hanno in mano Congresso e Senato. E’ allora che il presidente Obama ha cominciato a fare il commander in-chief, dopo aver subito il ridimensionamento della riforma sanitaria, e ingoiato bocconi amari su questioni di politica interna. E solo recentemente ha cercato di porre rimedio ai tanti passi falsi e alle troppe belle parole in politica estera cercando l’accordo con l’Iran, promuovendo la ripresa delle relazioni con Cuba, e facendo il muso duro all’attuale governo di Israele. Ancora una volta però egli si è mosso da outsider, da intellettuale sopra le parti in causa, disposto a capirne le ragioni anche se è in disaccordo.

Dopo di lui se la Clinton conquisterà la Casa Bianca vi entrerà da politica professionale, una creatura dell’establishment democratico, ancora più flessibile del marito ex presidente alle esigenze del big business. E infatti non ha ancora avuto il benestare del sindaco di New York e di altri politici democratici “di sinistra”. Intanto il big business, i politici di qualsiasi orientamento, e il paese intero sono esposti a un rivolgimento geopolitico di cui, salvo eccezioni, non si rendono conto. Le cause più recenti risalgono certamente alle disastrose guerre di Bush e ai rimedi falliti di Obama e della stessa Clinton ma intanto preme la realtà quotidiana dove si consolida l’intenzione dei paesi arabi, della Cina, dell’America latina di rendersi completamente autonomi dall’American Rule.

L’intenzione ha forme differenti ma il messaggio è quello. Ed è persino vistoso nel caso delle élite teocratiche dell’Arabia Saudita e dell’Iran che si fronteggiano con i rispettivi fondamentalismi religiosi ma sono accomunati dalla prospettiva di tornare sovrani e autonomi nei propri territori. Il gioco saudita del prezzo del petrolio è stato giocato non tanto per colpire la Russia quanto per rendere anti economico il costoso nuovo business americano di estrazione.

E i finanziamenti occulti dei principi arabi ai differenti gruppi di estremisti islamici hanno l’obiettivo di spaventare l’opinione pubblica occidentale perché prema sui propri governi e li spinga ad andarsene.

Se è così allora imperdonabili appaiono i passi falsi dell’America e dell’Europa nei confronti della riscossa geopolitica di zone del mondo che entrambi continuano a considerare loro protettorati. A dare soldi e droni a questo e a quello senza una strategia chiara e stabile. In tal senso le responsabilità dell’ex segretario di stato Clinton sono pari a quelle di Obama, di Hollande e di Cameron. E se per i leader francesi e inglesi l’interrogativo è: quando capiranno di non essere più nell’ottocento? Per il prossimo presidente degli Stati uniti si tratta di inventarsi una politica estera post guerra fredda e di tenervi fede. I fronti aperti sono sin troppi ma il punto è saper scegliere tra amici e nemici e accettare dagli amici un confronto alla pari.

Dopo Hiroshima gli Stati uniti non ne sono stati più capaci. E’ maturo il momento in cui accettino di farlo. Mrs.Clinton, professionista della politica, è forse più in grado di accettarlo dei concorrenti repubblicani. Ed un’Unione europea politica potrebbe essere d’aiuto sempre che a sua volta si sia liberata dei ricatti ideologici di capi e capetti polacchi e baltici, divenuti importanti funzionari e come tali in grado di influire sulla nostra politica estera.

L’ottocento e il novecento sono ormai proprio dietro di noi e per affrontare le ostilità di tante parti del mondo servono massicce dosi di realismo. Ne sarà capace il prossimo presidente degli Stati uniti?