«Lo Scrittore. Magari fosse qui adesso. Magari mi dicesse cosa fare della mia vita. Magari facesse con la mia vita un romanzo che io possa capire e che, dopo trecento pagine, si risolva con un po’ di verosimiglianza, entrando dopo un po’ nell’oblio, senza cicatrici».

A più di quindici anni dalla scomparsa del suo creatore, stroncato da un infarto all’aeroporto di Bangkok nell’ottobre del 2003, dopo un’avventura in comune durata più di trent’anni e poco meno di trenta romanzi, Pepe Carvalho non può fare a meno di pensare a lui, riflettendo sul proprio destino e sulla propria personalità ora che è stato sorprendentemente richiamato in servizio.

Perché in Carvalho, problemi di identità (Sem, pp. 330, euro 18, traduzione di Bruno Arpaia), il romanzo nel quale il giornalista e scrittore catalano Carlos Zanón fa rivivere, su proposta della famiglia di Manuel Vázquez Montalbán e della casa editrice Planeta che ne pubblicò le storie fin dagli anni Settanta, il celebre detective, la vera indagine riguarda, al di là di qualche efferato omicidio compiuto tra Madrid e Barcellona, ciò che il personaggio conosce davvero del suo autore come di se stesso. Quasi un noir sul significato della letteratura.

Carlos Zanón

Ci sono l’abitudine di bruciare i libri già letti, la passione per le donne e la cucina, il disincanto e una certa dose di cinismo, ma per il resto si può dire che lei non si è limitato a riprendere la creatura di Montalbán, ma lo ha in qualche modo reinventato. Come sono andate le cose?
In realtà ha scelto di ignorare deliberatamente tutto quello che è stato scritto dai critici sul personaggio di Carvalho, per fare invece riferimento ai romanzi di Montalbán, ma nel senso di ciò che mi avevano lasciato dentro, di quello che era in qualche modo diventato parte di me. Così sono partito da quello che il personaggio esprime in ogni sua indagine: l’idea che la verità vada cercata a tutti i costi anche quando dà esiti imprevedibili, spiazzanti, il suo senso della giustizia, il suo humor nero. Ho scritto un romanzo che sentivo del tutto mio, anche se grazie ad un personaggio in prestito. Per farlo, ho avuto bisogno di un pieno investimento emotivo: i fantasmi di Carvalho dovevano diventare i miei, anche se non era facile. Montalbán era nato nello stesso quartiere di mio padre e quasi lo stesso anno: nelle sue storie c’era l’eco di un’altra generazione. Per superare questo gap l’ho fatto parlare in prima persona: non è più il Carvalho in terza persona scritto da Montalbán che resta però per lui un’ombra costante come il padre di Amleto.

Uno dei segni distintivi del «suo» Carvalho sono i ricorrenti quesiti quanto alla propria identità, spesso espressi nella forma di un dialogo con «Lo Scrittore», con Montalbán. Così, è lui stesso a diventare oggetto dell’indagine che racconta?
Sì, certo. Il romanzo è Carvalho. Non potevo limitarmi al fatto che cucinasse o parlasse del Partito comunista come nelle sue indagini di un tempo. Il noir è un genere vorace e che avanza in fretta, rapidamente. O almeno dovrebbe essere così. Volevo creare un personaggio che smettesse di farsi del male da sé, e anche di autocommiserarsi: un detective vecchio, malato e che cerca ancora di evitare che gli spezzino il cuore. Il mio Carvalho è un uomo del 2017 (l’anno di uscita del libro in Spagna, nda). Si porta dentro tutti i nostri dubbi, la nostra ricerca di identità, ma anche il nostro rifiuto della violenza. La famiglia di Montalbán ha deciso che il personaggio meritava di essere messo in contatto con un’altra generazione di lettori. E hanno scelto me, un onore incredibile.

Manuel Vázquez Montalbán, scomparso nel 2003

Il suo lavoro si è svolto a lungo al confine tra il rock e la letteratura e in questo romanzo si ha l’impressione che abbia puntato molto sul ritmo: in particolare l’alternarsi di una prosa velocissima, fortemente visiva nelle scene d’azione, a momenti di pausa quando il detective si interroga o dialoga a distanza con «Lo Scrittore».
Credo che la letteratura sia musica. Un testo lo apprezziamo se «suona bene», se le parole sono scelte bene, così come il ritmo o il tono. Questa è composizione musicale. Scrivo romanzi come se li ascoltassi, come in un’opera lirica la cosa principale sono gli accordi, come risuona. Da questo punto di vista, arriverei a dire che talvolta l’argomento importa poco, tutto sta proprio nel ritmo.

I «problemi d’identità» di Carvalho si possono leggere a più livelli, visto che a fare da sfondo al suo ritorno sulla scena c’è la questione dell’indipendenza catalana, tema sul quale, lui, comunista deluso, si mostra piuttosto scettico. «Non mi piacciono le bandiere», dice, aggiungendo: «per quanto mi riguarda, non ho neanche compatrioti».
In effetti, Carvalho è un senza patria. Non lo troveremo sotto nessuna bandiera o ad ascoltare in silenzio nessun inno nazionale. Sta dal lato delle vittime, sempre e comunque. E poi è un individualista. È Rick nel suo caffé a Casablanca. Dopo di che, sulla cosiddetta «questione catalana» si deve fare chiarezza. Carvalho, e non è il solo, pensa che in fin dei conti si tratti soprattutto di uno scontro tra forze di destra, su entrambi gli schieramenti, tra due classi dirigenti che stanno cercano con ogni mezzo di conservare il potere nel bel mezzo della crisi economica.

A fare da sfondo al ritorno di Carvalho c’è naturalmente Barcellona, ma anche in questo caso si tratta di una città molto diversa da quella raccontata da Montalbán, e che ora appare dominata dalla presenza dei turisti e dalla gentrificazione dei vecchi quartieri popolari a cominciare dal Barrio Chino del Raval, così amato dal detective.
La Barcellona di oggi è sempre più simile a città come Amsterdam, Roma o Parigi: devastate dalla piaga della classe media turistica e dai cambiamenti intervenuti nel sistema economico che trasforma i lavoratori in rider che consegnano le pizze e che cerca di privare della loro anima i quartieri come le persone. La colpa è del sistema – certo – ma è soprattutto nostra che compriamo roba economica di cui non abbiamo bisogno sapendo che viene prodotta nel Terzo Mondo a condizioni di lavoro disumane. Così anche Barcellona è diventata una vetrina, è ormai una creatura ferita, speriamo solo non a morte.

Lei dirige dal 2005 un festival importante come Barcelona Negra, tra i principali appuntamenti spagnoli dedicati alla narrativa noir. Da Montalbán a Juan Marsé, da Francisco Gonzales Ledesma a Eduardo Mendoza, fino alla sua generazione, la metropoli catalana nasconde un cuore da romanzo?
Senza dubbio. Barcellona è una città letteraria e non solo perché molti scrittori hanno scritto nelle sue strade, l’hanno immaginata e reinventata. o ne hanno fatto, come Montalbán, il centro delle loro opere. Si deve anche considerare come esista un’industria editoriale molto consistente sia in catalano che in castigliano. Da questo punto di vista la città ha due anime che, al di delle apparenze, finiscono per arricchirla entrambe malgrado i conflitti di cui abbiamo parlato. Ma, soprattutto, non si deve dimenticare che la città è un grande porto, aperta ad ogni influenza, che ha perso tutte le sue battaglie perché in fondo ha un’anima donchisciottesca: vede sempre mulini a vento dove ci sono i giganti e viceversa. In qualche modo, un’identità da romanzo.