E’ il 12 novembre 1976 quando Luciano Caruso (Foglianise 1944-Firenze 2002) scrive all’amico Stelio Maria Martini: «Come avrai capito soffro di una nostalgia cane. Ma era necessario venire via. Mi mancano solo le pietre». Da poco tempo aveva lasciato Napoli, dove era stato al centro della più vivace avanguardia «clandestina» – fra «Documento Sud» prima e «Linea Sud» poi –, per trasferirsi a Firenze, che in un primo tempo gli appare, scrive in un’altra lettera, «più piccola e provinciale e angusta se possibile di Napoli» (18 novembre 1976). Il distacco non aveva tuttavia sfilacciato il dialogo con gli amici di allora: amata e odiata, Napoli e la sua cultura, o meglio il suo spirito, avrebbero fatto da motivo conduttore intertestuale alla sua ricerca verbovisiva quanto al suo più complesso profilo di umanista moderno, cresciuto negli studi filosofici per approdare alle arti plastiche.

È un tratto che emerge chiaramente, questo, visitando Luciano Caruso Alchimia degli estremi, la selezionatissima e preziosa mostra curata da Alessandra Acocella e ospitata fino al 12 settembre dal rinnovato Museo Novecento di Firenze diretto da Sergio Risaliti. Una ristretta campionatura, questa, che fa seguito a un’altra mostra fiorentina presso lo Spazio Mostre Fondazione CR Firenze (fino al 14 luglio), che mostra altre sfaccettature del Periplo umano e artistico di una figura poliedrica e poligrafa che sfugge alle facili classificazioni, come emerge anche dal poderoso volume pubblicato dal Mart di Rovereto, sempre nel 2019, su Il carteggio Caruso-Martini 1966-2002, che presenta, per le cure di Noemi Madonna, la copiosissima corrispondenza fra i due (oltre duecento lettere di Caruso contro una novantina di repliche di Martini), distribuita lungo poco meno di quarant’anni, a riprova di un dialogo ininterrotto che va a infittirsi soprattutto dopo il trasferimento a Firenze, da leggersi come momento di trasformazione di rapporti e non come cesura: messa in prospettiva, la situazione napoletana si chiarisce nei suoi contorni, permettendo a Caruso di trasformarsi progressivamente da attore a testimone di una stagione irripetibile per tensione sperimentale e civile, divenendone voce critica e narrante. Ne dà conto il libro-catalogo curato da Acocella e pubblicato da Bandecchi e Vivaldi, che riordina una campionatura eloquente di scritti carusiani che somiglia a un autoritratto intellettuale.

Più che in altri casi, infatti, è impossibile separare l’artista dal critico e dal teorico, dal momento che l’uno spiega le ragioni interne dell’altro, a partire dall’idea di una scrittura «materica» che si esprime in un gesto sganciato dal significato delle stesse parole, che per Caruso è al contempo un atto estetico, civile, e una messa in discussione erudita dei convenzionali codici di comunicazione. La memoria dell’Informale, messo in crisi dialetticamente già dal Gruppo 58, accompagna l’idea di un gesto che da traccia si concretizza in scrittura mantenendo un aspetto fabrile e artigianale, e che, pur connotandosi come alfabeto criptato di uno specifico sistema di segni, fa come da basso continuo: sembra venire da lì l’idea di un corpo a corpo con la pagina dentro e fuori dai processi tipografici, come nelle Tabulae del 1967, variazioni pittoriche intorno a una pagina tirata litograficamente con un carattere sovrapposto e cancellato e una serie di allusioni latamente esoteriche.

Giocoforza, la riflessione sul Caruso verbovisivo scivola dal piano storico-artistico a quello bibliografico, confermando, con Donald Mc Kenzie, che le forme producono significato, e che la veste materiale data al libro – riportato alla dimensione manoscritta in anni di incremento dei processi dell’industria editoriale – è portatrice di un senso di azione poietica, specialmente nella sua oscillazione, scrive Caruso stesso nel 1989, fra «bibliocastia e risemantizzazione». L’artista verbovisuale, proseguiva nello stesso testo, dando implicitamente una bella definizione di se stesso, era diventato un «amanuense della biblioteca di Babele». Non a caso nel 1968 aveva difeso l’idea di un «gesto poetico» che travalicasse l’accezione letteraria di poesia per farsi azione e agire spesso in un contesto clandestino rispetto a un establishment culturale: è un atto irriverente, che vuole fuggire alla pratica inaridente della citazione, oggetto di una densa dichiarazione teorica del 1974 in cui viene definita come il «punto di forza e, insieme, la spia del malessere della rappresentazione».

Ma il punto cruciale della sfaccettata personalità di Caruso sta nel fatto che parallelamente alla ricerca attiva si riscontra in lui un inedito sforzo di mettere in prospettiva storica le esperienze del presente e di riconnetterle alla radice delle avanguardie storiche. Da questo crinale, infatti, ci si accorge che si stanno facendo i conti con una figura cruciale non solo per la comprensione delle dinamiche delle ricerche verbovisive: Caruso ha un ruolo anche nella storia dei processi culturali, avendo usato l’editoria come strumento di militanza con piena consapevolezza dello scarto fra le sue scelte intellettuali e i modi dell’esoeditoria. Il suo lungo impegno intorno alle fonti del Futurismo – dalle Tavole parolibere futuriste (1912-1944) curate a quattro mani con Martini per Liguori nel 1975, ai Manifesti, proclami, interventi e documenti teorici del Futurismo, 1909-1944 per la Spes di Paola Barocchi nel 1980 (in coedizione con la libreria Salimbeni), fino a Futurismo e Novecentismo per l’editore e libraio Belforte di Livorno, nel 1984 ancora con Martini – suggerisce la sinopia di una storia da raccontare, e forse anche la traccia di una raccolta di scritti «futuristi» di Caruso interna a una storia editoriale della storia dell’arte.

Proprio nel 1984, infatti, egli varava una collana editoriale, «Le brache di Gutenberg»: «mi sono buttato ed impegnato tutto in questa cosa», scrive a Martini il 23 gennaio, «forse perché in qualche modo la sento totalmente mia dall’idea alla stampa finale di ogni singola pagina, anche questo è un modo forse non troppo ingenuo di lasciare una traccia». Ma il tempo stava per scadere: Alchimia degli estremi è il titolo di uno dei suoi ultimi componimenti poetici, poco prima della morte nel dicembre 2002, e riflette sul senso ultimo di una concordanza degli opposti, tanto concettuali quanto geografici. Sapeva, tuttavia, che gli mancava poco tempo: «avendo giocato ogni cosa nel nostro impegno», confida a Martini l’8 agosto, «ora non ci riconosciamo in questa società e gli dei sono stanchi».