Venezia, questa parola è l’etichetta di molte realtà. La più ristretta è costituita dalla città antica, circondate dalle acque salmastre della Laguna, celebrata in tutto il mondo da interi archivi di cartoline illustrate e da milioni di immagini scattate da turisti d’ogni continente. La più ampia è quella di un’area metropolitana i cui confini variano, a seconda delle tendenze degli studiosi e dei tempi della politica, dalle dimensioni di una ventina di comuni a quelle di qualche provincia. In queste note mi riferisco al nocciolo essenziale del più vasto contesto: l’intima unione tra la città insulare, edificata nel corso del millennio che è alle nostre spalle, e quel particolarissimo ambiente salmastro da cui ha tratto la sua vita e la sua forma, la sua Laguna.

Immobile e mutevole

La forma fisica, la struttura materiale della città insulare è cambiata pochissimo nell’ultimo trentennio, ma sono cambiate profondamente la sua struttura sociale, il modo in cui viene vissuta dai suoi abitatori permanenti o temporanei o fluttuanti, i poteri che ne orientano le trasformazioni e i conflitti che li dividono. È soprattutto su questo aspetto che vorrei soffermarmi, perché è all’esito di questi conflitti che è legato il futuro: il prevalere dei rischi che il trend preannuncia o delle speranze che l’ottimismo della volontà consente di intravedere.

Trent’anni fa la sede delle decisioni era nelle istituzioni: nei consigli del Comune, della provincia e della regione, e nelle parti politiche (nei partiti) che in quelle sedi trovavano gli accordi necessari per governare. Era attraverso i partiti che gli interessi sociali, economici, ideali esercitavano le loro influenze sulle scelte, ed era attraverso i partiti che si esprimevano le visioni sul futuro della città e le regole del suo funzionamento.

Il cambiamento iniziò nel corso degli anni Ottanta. L’evento più rilevante fu l’affidamento da parte dello Stato a un consorzio di imprese private, in larga prevalenza del settore dell’edilizia, il Consorzio Venezia Nuova, del complesso di interventi più consistente sulla struttura fisica ed economica della città: gli interventi per la salvaguardia della Laguna e la realizzazione del progetto MoSE), con la legge Nicolazzi del 1984). Nello stesso anno Gianni De Michelis, potente e lucido esponente del Psi di Craxi, lanciava la proposta di realizzare a Venezia l’Esposizione mondiale del 2000. La proposta vedeva convergere sulle «magnifiche sorti e progressive» di una Venezia lanciata sui mercati internazionali l’universo delle grandi imprese italiane Mentre il Consorzio Venezia Nuova diventava uno dei principali attori della vita economica della città con il potere che gli derivava dal ruolo di concessionario unico dello Stato e dalle ingenti risorse finanziarie pubbliche di cui disponeva, in città si manifestava e via via si estendeva una forte campagna di contrasto alla proposta di Expo.

L’opposizione vinse e sconfisse, allora, il disegno di De Michelis. È utile riflettere oggi sulle ragioni che allora prevalsero. Si era riusciti a far comprendere (ai veneziani, ai parlamentari italiani e a quelli europei) che gli effetti di un’Expo a Venezia «sarebbero stati dirompenti: non tanto sulle “pietre” della città, quanto sul delicato equilibrio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della città e la società che le abita» (l’Unità, 13 giugno 1990). Questo equilibrio, si osservava allora, «è già minacciato da un non governato turismo di massa, che modifica giorno per giorno l’assetto sociale ed economico delle città: influisce sul mercato immobiliare, sulla qualità del commercio, sui prezzi delle merci, sui modi di fruizione della città e dei suoi servizi».

Era già iniziata la trasformazione del complesso industriale di Porto Marghera: prima il passaggio del capitale dai monopoli privati alle Partecipazioni statali, poi la chiusura delle fabbriche più antiche, il pensionamento anticipato dei lavoratori, mentre diventava via via più acuta la consapevolezza del pesante danno alla salute del territorio, dei lavoratori e degli abitanti, derivante dall’inquinamento prodotto dalle industrie chimiche. A livello nazionale erano gli anni del craxismo rampante, della sconfitta della classe operaia con il fallimento del referendum per la scala mobile, della deregulation e del trionfo di slogan divenuti senso comune («meno Stato e più mercato», «via lacci e lacciuoli», «privato è bello»), ormai vincenti anche nella gestione politica della sinistra comunista.

A partire da quegli anni è iniziato anche a Venezia un passaggio che ha caratterizzato tutta l’economia italiana (e con essa la società e il sistema dei poteri e dei valori).

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La rendita turistica

Mentre nella fase del capitalismo fordista la centralità del meccanismo economico era nella crescita del profitto e del salario, in quella del finanzcapitalismo (Gallino) essa è stata assunta da quella forma di reddito che i liberali classici definivano «parassitaria» la rendita. In Italia, un peso preponderante ha assunto, accanto a quella finanziaria, la rendita urbana, nelle sue diverse forme legate ai vantaggi privati accumulabili dalle trasformazioni nell’uso del suolo (Tocci). Mentre in generale in Italia (nei grandi centri sempre più densificati come nelle campagne devastate dallo sprawl) è cresciuta in modo abnorme la rendita immobiliare: quella cioè derivante dall’incremento di valore derivante dal passaggio dall’utilizzazione agricola dei suoli a quella edilizia. A Venezia, invece, l’interesse degli operatori economici si è rivolto soprattutto ai vantaggi che potevano ottenere dalle rendite derivanti da giganteschi incrementi degli flussi turistici. Anziché adoperarsi nel compito, difficile ma indispensabile, di governare i flussi turistici, ci si è impegnati ad aumentarli senza tregua, considerando un grave danno per la città ogni riduzione quantitativa delle presenze turistiche.

Ogni cosa è in vendita

Sempre più i poteri pubblici hanno privilegiato l’uso della città come «vetrina» capace di attrarre compratori di qualcosa che della città fosse un emblema o un brandello: per i più poveri di denaro e di tempo, una coca-cola e uno scatto fotografico, per i più ricchi e potenti un palazzo antico o una torre modernistica. Tra i compratori più ambiti, quelli che potevano a loro volta accrescere il valore della «merce Venezia» promuovendo a sua volta l’attrattiva che la città esercitava verso i potenziali compratori. E sempre più i poteri pubblici si sono asserviti ai compratori della città.

Il processo è iniziato con la giunta guidata da Massimo Cacciari nel 1990, quando sono state cancellate le regole che avrebbero consentito di ostacolare i cambi di destinazione d’uso dalla residenza alle altre utilizzazioni. Esso è proseguito con rinnovata lena negli anni successivi, non solo rincorrendo quei «mecenati» che apparivano già disponibili a comprare (i Benetton e i Cardin, i Trussardi e i Vuitton), ma anche cedendo a essi – e ai loro agenti – quote crescenti di potere. Stelle fisse più splendenti nella costellazione dei poteri extraistituzionali che guidano le trasformazioni della città sono il Consorzio Venezia Nuova, l’Autorità portuale, la Save, proprietaria privata degli aeroporti di Venezia e Treviso, la potentissima Fondazione Venezia della Cassa di risparmio, e l’associazione Venezia 2000, erede ufficiale della strategia avviata dai promotori dell’Expo 2000.

Gli effetti di questa gestione della città non hanno tardato a manifestarsi. Essi sono avvertibili nella vita quotidiana: l’impossibilità di trovare alloggi in affitto a un prezzo ragionevole, la scomparsa dei servizi per la vita quotidiana, il degrado fisico della città provocato dalle orde di turisti che la invadono per poche ore, la riduzione degli spazi e dei servizi pubblici derivante sia dall’aumento di quelli occupati dal turismo sia dalla progressiva svendita degli immobili di proprietà pubblica per favorire ulteriormente la «vocazione turistica» della città.

Ma altrettanto gravi sono gli effetti visti da quanti, veneziani o non veneziani, considerano Venezia e la sua Laguna un patrimonio dell’umanità e hanno compreso pienamente in che cosa questo particolare patrimonio consiste: nella piena sinergia tra lo spontaneo e l’artificiale, tra la natura e la storia, tra gli spazi e gli edifici che ne costituiscono la parte più compiutamente artefatta e la mutevole comunità che la abita e vi lavora. È singolare il fatto che così pochi, nel mondo e in Italia (e perfino a Venezia) abbiano compreso l’assoluta singolarità di quella laguna: l’unica al mondo restata tale dopo un millennio di trasformazioni operate dall’uomo. Se lo si fosse compreso nessuno avrebbe tollerato il carattere distruttivo dell’ingresso in Laguna di quei mostruosi edifici semoventi, causa non solo di un danno estetico, né solo di un rischio di catastrofe, ma attori di un quotidiana degradazione dei precari equilibri tra terra e acqua, argilla e limo, vegetazioni e fauna in assenza dei quali ogni laguna si trasforma in uno stagno o in un braccio di mare.

Le Grandi navi un effetto positivo tuttavia l’hanno avuto. Hanno provocato il nascere di un’opposizione popolare che è riuscita a coagulare in un unico fronte, ancora variegato e ricco di contraddizioni, quanti si battono per un futuro diverso da quello minacciato dai nuovi padroni della città, agevolati dalla complicità delle istituzioni cittadine. Allo stato degli atti, nello sfaldamento delle istituzioni e del sistema dei partiti, l’unica speranza risiede nei movimenti di protesta che il disfacimento della città e della società provoca.

Ma non c’è molto tempo. Già si annuncia un nuovo evento: la proposta di fare di Venezia la Porta dell’Expo 2015, che si svolgerà a Milano. Il cerchio si chiude. Il trentennio veneziano si conclude come era iniziato. Scongiurato trent’anni fa il rischio di una expo tutta veneziana, oggi Venezia diventa la luccicante vetrina e la serenissima hall dell’expo milanese. E tutto si tiene. Le masse di turisti scaricati con le Grandi Navi in quello che fu la Laguna riempiranno di dollari, yuan e rubli le aziende con sede in Venezia che sapranno intercettarli, e andranno a Milano, aumenteranno i treni veloci tra Venezia e Milano e diminuiranno (la coperta è stretta) quelli per i pendolari. L’occasione sarà propizia per rilanciare il progetto della metropolitana Lagunare dal Lido all’Arsenale a Tessera, per privatizzare il complesso demaniale dell’Arsenale, e vendere altri pezzi di città al migliore offerente.