È lo spazio urbano il soggetto delle opere di Antonio Ottomanelli. Di formazione architetto, agisce come un osservatore che attraverso immagini fotografiche, workshop e pubblicazioni cartacee indaga i mutamenti, le dinamiche sociali e le tensioni presenti nei territori di aree di conflitto come l’Afghanistan, l’Iraq e la Palestina. Oltre ai riferimenti alla fotografia scientifica, che cerca di restituire ai territori la loro dimensione spaziale, Ottomanelli (nato a Bari nel 1982) si serve di modalità partecipative per raccontare sistemi complessi come le aree post belliche.
Collateral landscape è il progetto di ricerca che raccoglie molti suoi lavori tra cui Big Eye Kabul e Mapping Identity – Baghdad, esposti a Camera, Centro Italiano per la Fotografia di Torino, fino al 13 marzo. Insieme alla sua personale, è visitabile la collettiva Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni e il progetto espositivo Oh Man di Lise Sarfati.

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Mapping Identity – Baghdad

La sua è un’analisi dei territori e delle loro porosità. Può raccontarci come è nato «Mapping Identity – Baghdad»? È un progetto che ricorda le «cartografie tattiche» realizzate da Asley Hunt, Bureau d’études e Counter Cartographies Collective, connotate da modalità partecipazione che attivano la riflessione critico-sociale…
Parallelamente alle mie indagini fotografiche, organizzo workshop che si ispirano ai modelli di educazione libertaria. Il progetto è nato da un laboratorio svolto con gli studenti della facoltà di Fine Arts dell’Università di Baghdad. Ogni studente disegnava la porzione di città e i percorsi che conosceva. Usavano due colori, il nero per rappresentare la città com’era prima del 2003 (anno dell’intervento delle truppe statunitensi), e il rosso che indica invece cosa è cambiato da quel momento in poi, fino a oggi. Il formarsi delle mappe era accompagnato dai loro racconti sulla città che io registravo.  La città muta forma dopo ogni attacco, i blastwalls installati per proteggere da possibili attacchi terroristici gli spazi a maggiore affollamento, cambiano il modo di muoversi all’interno dei quartieri. Tali trasformazioni hanno un effetto psicologico sugli abitanti, impediscono loro di riconoscersi nel luogo in cui vivono, disorientano e minano la realizzazione di un tessuto di relazioni sociali. Le mappe realizzate nel workshop da una parte sono lo strumento che ho utilizzato per comprendere la struttura urbana di Baghdad, utili ausili nell’individuare cosa fotografare e, dall’altra, hanno permesso agli studenti di ricostruire territori scomparsi dalla loro mappa mentale. Attraverso il disegno, scavalcavano muri e checkpoint e potevano tornare a camminare nella loro città. Si emancipavano dalla strada e dalle sue forme di controllo, camminando lungo linee rette che superano ogni ostacolo. Camminare è la forma di azione artistica e politica più potente.
Mi sento molto vicino alle forme di educazione libertaria. Pratiche che ho approfondito in Brasile, dove ho lavorato – a tempi alterni – per circa due anni. L’educazione libertaria, come spiega Ivan Illich, è una forma di attivismo attraverso la quale ogni persona diventa cosciente delle forze sociali che la influenzano, dei meccanismi di potere esistenti nelle relazioni quotidiane, degli spazi di autonomia e cambiamento possibile. I miei progetti nascono dall’attivazione di queste pratiche, intese come sperimentazione di modalità di organizzazione della vita sociale attraverso il libero accesso e l’autogestione.

Con «Big Eye Kabul» ha fotografato i dirigibili e i droni americani che sorvegliano le città afghane, dispositivi che vengono installati come deterrente contro insurrezioni e azioni terroristiche, sorta di panopticon galleggiante che ribadisce lo stato di guerra permanente in cui si trova il paese. Perché questa scelta?
A Kabul, per la prima volta, ho visto un drone. La sua presenza era imponente, tanto da connotare l’intero paesaggio. Un’emergenza visibile ovunque, che trasmette una pace che nasconde l’inferno. Le ragioni di utilizzo di un drone sono molteplici ed evidenti. Le telecamere stradali, cctv, sono direttamente esposte ad atti di sabotaggio fisico e digitale. I dirigibili, invece, hanno al loro interno il Pss – Persistent Surveillance System – che è dotato di un numero da sei a tredici telecamere a controllo remoto, con obiettivi 360° dotati di lettura infrarossi e filtri calore, che permettono riprese continue notte e giorno ad altissima risoluzione. L’angolo di riprese dalle lenti è ampio, riesce a coprire un’intera estensione urbana. Il Pss inoltre permette di seguire contemporaneamente diversi obiettivi sensibili e/o sospetti. Questo tipo di tecnologia, come anche l’urbanistica militare, viene adottata e testata in contesti di conflitto prima di essere utilizzata anche nei nostri territori in forma diversa. Il Pss dal 2013 viene impiegato sul confine tra Messico e Stati Uniti e, a quanto pare, sarà attivato in Brasile durante le Olimpiadi. Le cctv sono un sistema tecnologicamente meno avanzato, meno flessibile, e più esposto: durante gli attacchi terroristici vengono facilmente distrutte, perdendo la possibilità di documentare le fasi successive agli attacchi.
Il Pss quindi è di supporto sia all’attività di prevenzione che all’attività di indagine successiva a un evento. Il drone si muove nel cielo delle città seguendo a diversa distanza differenti obiettivi, immune dai rischi e dai conflitti presenti a livello strada nelle red zone. Bisogna considerare anche il ruolo simbolico del drone, del Pss nel cielo. Il significato e il valore della sua distanza dal reale.La sua immunità, la sua invulnerabilità e ubiquità. Per questo ho deciso di fotograrlo per invertire lo sguardo e registrare la presenza di un dispositivo che ci sorveglia costantemente.

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Da poco è stato pubblicato «The Third Island»: può parlarcene?
È il primo volume da me curato e pubblicato da Planar, la casa editrice che ho fondato a Bari. Il libro è il risultato di un progetto di documentazione nato in relazione alle Grandi Opere calabresi per il 50° anniversario dell’avvio dei lavori dell’arteria stradale A3 Salerno-Reggio Calabria (1965), e per il 20° anniversario dell’apertura del porto di Gioia Tauro (1995). The Third Island è stato presentato per la prima volta in forma espositiva all’interno di Monditalia alla XIV Mostra Internazionale di Architettura di Venezia e ora come libro che raccoglie le immagini realizzate da undici fotografi/e.  Un’opera può definirsi «Grande» se è occasione per tornare a vivere luoghi lontani, ma se questo presupposto non si realizza l’opera crea conflitti che generano traumi e sono causa di abbandoni e amnesie. Se poi la condizione conflittuale si radica sulle disuguaglianze, come è accaduto in Calabria, finisce per diventare nell’immaginario collettivo un dato perenne. Il territorio calabrese è connotato come terra perduta, abbandonata al dissesto, al conflitto e questa percezione collettiva rende difficile introdurre elementi nuovi e inaspettati. Con The Third Island ho cercato di cartografare questo smemoramento, che è disumanizzazione del reale poiché toglie a quel paesaggio, per il privilegio di altri, ogni possibilità di riscatto.