La Nigeria delle ragazze rapite e mostrate in un video scioccante col velo, costrette alla preghiera e in odore di schiavismo e abusi, è la stessa che ha dato i natali a Okwui Enwezor, prossimo curatore della Biennale d’arte di Venezia e a J.D. Okhai Ojeikere, il grande fotografo scomparso lo scorso febbraio, famoso per il suo archivio di acconciature «rubate» in strada. ]Ha immortalato migliaia di sculture effimere fatte di capelli, alcune delle quali le ritroviamo nella mostra Ici l’Afrique, presso lo Château de Penthes di Ginevra, curata da Adelina von Fürstenberg, su progetto di Art For The World. Queste «Nigerie» antitetiche sono forse due paesi diversi, schizofrenicamente precipitati sotto un medesimo sguardo che rischia di farli esplodere? Sappiamo – e lo ribadisce ogni artista presente allo Château svizzero – che esistono centinaia di Afriche, così come ci sono altrettante «Europe», «Asie» etc… Nonostante spesso la scena internazionale dell’arte e il mercato occidentale si ostinino a proporre tutti insieme gli artisti africani, come fossero un unico corpo contenitore di variegate culture, è sempre difficile trovare un vero fil rouge. Capita anche per autori provenienti dallo stesso paese, figuriamoci quando sono dispersi in una geografia a mosaico che vanta una storia millenaria che la diversifica da ogni altra. Memoria, postcolonialismo, cartografie sentimentali sono, in fondo, le tematiche che attraversano molte rassegne contemporanee, non solo quelle a predominanza africana. Però l’artista camerunense Barthélémy Toguo (e in un certo senso, l’algerina Zineb Sedira con il suo lavoro) sceglie di cogliere l’occasione di quella réunion per chiamare a raccolta gli intellettuali del suo continente con un appello che suona più o meno così: «La diaspora africana è finita, è ora che ognuno si prenda le proprie responsabilità». Lui l’ha già fatto, fondando un centro per l’arte e l’agricoltura – Bandjoun Station – qualcosa che sviluppi insieme la creatività e il cibo, che tenga strette a sé le materie prime africane, evitando il loro viaggio in occidente senza un controllo «in situ», anzi con un’imposizione di ritmi (lavorativi) e prezzi «coloniali». È un progetto importante il suo, che fa il paio con quello di Sedira in Algeria, dove ha le sue radici: l’apertura di un centro di residenze per artisti.

Nella mostra Ici L’Afrique, se proprio si vuole puntare su un’assonanza di generi/storie/costruzioni estetiche, si può partire da una eccezionale capacità affabulatoria, affidata a una polifonia di voci. D’altronde, dice Adelina Fürstenberg, non è più tempo per spaventarsi dell’alterità, «lo sguardo degli artisti ci interroga su ciò che ci circonda». Basta prendere in prestito le parole di Edouard Glissant: «la differenza non mi erode, se io cambio venendo a contatto con la diversità, non vuol dire che mi diluisco in quella…Non si tratta più di sognare il mondo, ma di cominciare ad entrarci dentro». Griot è soprattutto un artista come Romuald Hazoumè (Porto Novo, Benin). Ha scelto di realizzare maschere, riconnettendosi a una tradizione religiosa e culturale antica. Le sue maschere, però, sono il risultato di un assemblaggio particolare: vengono «messe in forma» attraverso l’uso di taniche di benzina, le stesse che «ogni abitante del Benin trova abbandonate agli angoli delle città, sono taniche che testimoniano i traffici illeciti che avvengono ovunque». Hazoumè compie anche un passo azzardato e stabilisce una similitudine fra «bidoni» e «schiavitù»: carichi entrambi di storia recente, oggetto e soggetto si scambiano di ruolo, tanto che nell’installazione portentosa (presentata al Quai du Branly di Parigi nel 2006), La bouche du roi, gli schiavi delle navi venivano identificati e «scolpiti» con quei residui in plastica, prove di una illegalità manifesta. Così, con ironia e insieme consapevolezza, le maschere giocose che mixano rottami e immondizie, diventano un possibile luogo di resistenza.

La tunisina Nadia Kaabi-Linke sposta l’attenzione dalla strada a uno spazio chiuso, piombando fra i banchi di una chiesa. Nel divertentissimo video No , un gruppo di persone, con la ritualità di una preghiera, risponde in coro a un questionario sull’identità, simile – nelle sue domande – a quelle contenute nei visti richiesti per entrare in vari paesi. «Faccio riferimento a una esperienza vissuta – racconta l’artista che ora vive a Berlino – in ognuno di quei moduli, la base di partenza è la presunzione che tu sia un terrorista…».

La rassegna ginevrina ospita anche alcune opere di filmmaker, come l’intenso corto di Abderrahmane Sissako sulla dignità (N’Dimagou), scritta e vissuta sui visi e in una manciata di parole della gente comune; o La longue marche du caméléon di un maestro come Idrissa Ouédraogo (che affronta un tema quale il sincretismo e la libertà di credere in ciò che si vuole). C’è anche il regista marocchino Faouzi Bensaïdi (fra i candidati Oscar per il miglior film straniero con Mort à vendre, è stato battuto da Sorrentino). Il suo Le Mur è una dichiarazione d’amore per la strada e per la sua capacità di raccogliere storie. Personaggi in transito abitano la scena, sono presi dalle loro emozioni, rabbia, dolore, passioni travolgenti. Protagonista silenzioso e alieno, spettatore impassibile, il muro: un confine fra immaginario e realtà.

DSC_1830 - Pom Pom Boy di Pascale Marthine Tayou - Ici l'Afrique - Ginevra (foto Manuela DeLeonardis)
[Pom Pom di Pascale Martine Tayou (foto De Leonardis) 

 

 

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