«Io non ho smesso di fare politica. La faccio in modo diverso, con i film, con i libri come questo», ha risposto qualche settimana fa Walter Veltroni a Lilli Gruber che gli chiedeva se sarebbe mai tornato alla politica attiva, discutendo appunto del suo ultimo libro, Ciao (Rizzoli, pp. 248, euro 18.50). Ma come può essere politico un libro così intimo e personale, l’incontro tra un signore sessantenne, in un ferragosto reso magnifico dalla desolazione di uno spicchio di città deserto, e suo padre morto giovane, prima che lui compisse un anno? A quale politica può rinviare la confessione di una mancanza avvertita per la tutta la vita, la cartografia emotiva di un’assenza che il figlio ha provato a colmare con le memorie di chi quel padre lo aveva conosciuto e con l’immaginazione?

L’espediente narrativo, il dialogo tra il padre tornato per un giorno e un figlio che gli è ormai di vent’anni più anziano, consente di procedere su piani paralleli. Con il supporto delle testimonianze degli amici e dei colleghi di allora, il figlio restituisce la biografia breve ma folta di Vittorio Veltroni, figura importante del giornalismo italiano: un ragazzo che aveva bruciato le tappe.

A 37 anni era già stato giornalista, radiocronista, padre fondatore della Rai, inventore di trasmissioni che all’epoca erano vento fresco capace di innovare non solo la radio ma l’intero modo di comunicare, direttore del telegiornale, il primo, sceneggiatore per cinema e rivista, ma anche il talent scout che portò sul neonato piccolo schermo italiano Michael Bongiorno, ribattezzandolo Mike. Allo stesso tempo, Walter ricapitola il percorso di una relazione mancata, dunque coltivata forse ancora più intensamente nel corso del tempo, soggetta con l’accumularsi degli anni e delle esperienze, prima fra tutte quella di avere figli propri.

È la storia privata di un dolore e di una ricomposizione. Però intreccia anche la Storia di questo Paese, e dunque la politica. Al rimpianto per chi non ha potuto conoscere, l’ex leader Veltroni accosta la nostalgia per ciò che, come tutta la sua generazione, ha invece conosciuto, direttamente o per prossimità: l’Italia geniale, creativa, ottimista e felice della Ricostruzione, di cui suo padre è stato un protagonista, e la sua coerente prosecuzione nel «sogno degli anni ’60», come era titolato un libro collettivo di memorie curato dallo stesso Veltroni alla fine degli ’80, quasi all’inizio della sua avventura politica.

L’Italia di quei circa 25 anni, dal 1948 al 1973, era capace di sognare e di credere fermamente nella possibilità di trasformare quei sogni in un Paese reale. Sapeva inventare e adoperare l’inventiva per rompere gabbie una dopo l’altra: sociali e culturali, ma anche linguistiche e comunicative. Conosceva i segreti del lavoro comune, della sinergia di gruppo, della collaborazione creativa: eredità perduta la cui mancanza Veltroni lamenta a più riprese in questo libro che è insieme sul passato e sul presente.
Ce ne è a sufficienza per dedurne cosa avesse in mente il primo segretario del Pd all’atto di immaginare e poi battezzare la nuova creatura politica. Si può dissentire a fondo sull’opportunità di quel passaggio o sull’identità della formazione «a vocazione maggioritaria». Si può essere ancora più radicalmente critici sulle modalità con cui quel Pd fu fondato. Ma non c’è motivo di avanzare dubbi sulle aspettative rosee e sulle ambizioni non ignobili di chi lo guidava al momento del decollo.

Veltroni è onesto: riconosce il fallimento, almeno parziale. Confessa di aver voluto e pensato un partito diverso da quello che è oggi il Pd. Si dichiara uno sconfitto. Si ferma, per quanto lo riguarda, su un confine che ha invece il coraggio di oltrepassare quando affronta il nodo dell’adesione al fascismo del padre (come di quasi tutti i giovani italiani). Evita di addentrarsi nella zona d’ombra a cui pure allude: chiedersi come e perché il partito che nel suo sogno doveva restituire all’Italia audacia, immaginazione e capacità di azione comune si sia trasformato nella privata compagnia di ventura di un leader che incarna l’incubo degli anni 2010 molto più che non il sogno degli anni Sessanta, o la realtà della Ricostruzione.