«La bellezza è una responsabilità come un’altra, le donne belle vivono vite speciali come i primi ministri, ma non è questo che voglio veramente, dev’esserci qualcos’altro…».
Erano questi i pensieri di Marion, protagonista ultranovantenne – ma «il tempo è senza importanza» – di quell’impossibile romanzo di formazione che è Il cornetto acustico di Leonora Carrington (1974, in Italia Adelphi, 1984), artista nata nel 1917 a Clayton-le-Woods, nel nord-ovest dell’Inghilterra, e scomparsa in Messico nel 2011. Ed è proprio a quel «qualcos’altro» che la pittrice e scrittrice, scelta da Cecilia Alemani come musa della prossima Biennale di Venezia, ha orientato tutta la sua lunga e appassionata vita, una ricerca indisciplinata condotta con coraggio nelle sue opere e nel suo corpo sottile, di una bellezza magnetica e impietosa.
Pittrice visionaria e ironica, surrealista nella metamorfosi, nell’esplorazione radicale di una coscienza dai confini labili e mai risolti, soprattutto tessitrice instancabile, in immagini e parole, di sogni comunque inquietanti (tra i sogni e gli incubi, scriveva nel racconto Le sorelle, «a volte succede di confondersi»), fin dai suoi primi anni, da quella terribile stagione che è l’infanzia, popolata di fantasmi e di piaceri insopportabili, Leonora Carrington ha fatto dell’insubordinazione tenace, dell’audacia e persino del rischio la chiave di un’esistenza in cui arte e vita si sono costantemente rispecchiate, persino scambiate, dando vita a un corpus di opere eccedente e singolare, abitato da creature anfibie, sempre in bilico tra il gioco e l’orrore.
Ircocervi teneri e spaventosi che popolano il teatro onirico della pittura e della scrittura di Carrington, in cui animali ed esseri umani, piante e oggetti-feticcio (uno per tutti, il cavallo a dondolo che compare anche nel celebre Self portrait. Inn of the Dawn Horse, 1937-’38, oggi al Met) si mescolano e si rigenerano in una danza infinita, un’orgia e una battaglia in cui, sono stati in molti a notarlo, si riconosce l’eco delle mostruose delizie, tanto amate dai surrealisti, di Hieronymus Bosch. Del resto, la vicinanza di Carrington al Surrealismo non è stata soltanto l’occasionale conseguenza dell’amore, decisivo e sicuramente fou (così Giulia Ingarao), con Max Ernst, incontrato nel giugno del 1937 a Londra, in occasione della personale Exhibition of Surrealist Paintings alla Mayor Gallery.
Da tempo Leonora sapeva di essere destinata a infrangere per forza di arte e di vita le convenzioni della società borghese da cui proveniva, una realtà senza meraviglia, governata dalle aride ragioni dell’utile. Neppure ventenne si era per questo trasferita dalla sonnolenta provincia inglese a Parigi per studiare arte all’Accademia con Ozenfant, andando così in conflitto con la famiglia, con il padre Harold soprattutto, ricco e autoritario imprenditore che aveva tutt’altre ambizioni per la figlia, la quale, dal canto suo, si era fatta sistematicamente espellere dai collegi e dalle scuole religiose che avrebbero dovuto trasformare lei, Leonora, una ragazza libera e selvaggia, una definitiva sognatrice, in un’elegante e obbediente signorina, esangue e squisito fiore da presentare in società.
Quanto questo fosse insopportabile per la giovane donna, divenuta non a caso un simbolo per i movimenti femministi degli anni sessanta, lo si capisce fin troppo bene dal racconto La debuttante (1937-’40, Adelphi, 1984), scelto da Breton per la sua Antologia dello humour nero, dove l’insofferente protagonista, amica più delle belve che degli uomini, decide di farsi sostituire al ballo di società per lei organizzato dalla madre da una iena, abbigliata di tutto punto e mascherata con la faccia strappata a una sfortunata cameriera. Un racconto grottesco dal finale raccapricciante che incantò il papa del Surrealismo: Breton, ha evidenziato Angelo Trimarco, che in Italia è stato tra i più precoci interpreti di Leonora Carrington, sottolinea come nessuno meglio di lei «teatralizzi l’immagine della strega delineata da Michelet i cui ‘doni’ – la follia lucida, la sublime solitudine – certamente costituiscono la trama segreta della sua avventura di scrittrice e di pittrice».
Insomma, la scelta surrealista di Leonora non fu soltanto il frutto della folgorazione amorosa per Ernst, una relazione socialmente riprovevole che portò la giovane alla definitiva rottura con la famiglia – Ernst era allora sposato in seconde nozze con Marie Berthe Aurenche, anche lei femme-enfant, e aveva più del doppio degli anni di Leonora –, anche se, in realtà, l’asimmetria tra i due era più apparente che reale. La piccola Prim (l’aggettivo, che si può tradurre con «formale», «cerimonioso», era il paradossale soprannome con cui Leonora era conosciuta in famiglia) da tempo era pronta a liberarsi degli abiti sfarzosi e dei sorrisi accennati in cui la volevano prigioniera. Pubblicata nel libro The Surreal Live of Leonora Carrington della giornalista Joanna Moorhead, lontana parente di quella Prim di cui per caso (ma, poi, il caso esiste? I surrealisti avrebbero certo detto di no) solo nel 2006 ha scoperto la fortunata vicenda di artista, occultata dalla imbarazzata famiglia, c’è una foto in cui si vede l’adolescente Leonora in posa con la madre in occasione di un ricevimento a corte: lo sguardo della ragazza non dà scampo, è diretto e frontale come un attacco.
Nessuna esitazione, quindi, nell’abbandonare il Lancashire per Parigi, come non ci fu nessun dubbio rispetto alla scelta di essere artista: «Non decidi di dipingere. È come essere affamati e andare in cucina per mangiare. È un necessità, non una scelta», ha dichiarato in una delle ultime interviste. Allo stesso modo, la terribile crisi psichiatrica che portò Leonora a conoscere gli abissi del delirio, a vivere il terrore del Cardiazol e la violenza brutale di una psichiatria muta tra le alte mura di un manicomio spagnolo, non fu certo un’opzione, l’esito di una consapevole deriva, ma la catastrofe inevitabile di una sensibilità da sempre acuta, resa ancora più allarmata dai mesi di amore senza riserve vissuti con Ernst nella loro casa in Ardèche.
Da quella masseria, che le rare immagini ci mostrano come opera d’arte totale, fatta di pietra scolpita, di segni e di parole meravigliosi, una casa in cui, scriveva Ernst presentando il primo libro di Leonora, La Maison de la Peur (1938), l’autrice «si scalda della propria vita intensa, del proprio mistero, della propria poesia», Ernst fu portato via nel 1939 per essere confinato in un campo di concentramento, mentre la Francia veniva invasa dai nazisti e ogni cosa sembrava perduta. Carrington ha raccontato ciò che accadde dopo quello strappo crudele nelle pagine di Giù in fondo (1973, Adelphi 1979), lucida cronaca di una follia, resoconto impressionante di quello che fu davvero un viaggio all’inferno e ritorno: «Sono d’accordo che si pubblichi En bas, MA… Non sono più la ragazza incantevole che è passata per Parigi, innamorata (…). Non sarò mai pietrificata in una ‘giovinezza’ che non esiste più». E davvero Leonora Carrington ha saputo fuggire a ogni tentazione di stabilità.
Pur rimanendo legata al gruppo di Breton, con il quale ha esposto nelle mostre più importanti, non ha esitato a mettersi nuovamente in gioco: giunta dopo un rapido passaggio newyorchese a Città del Messico nel 1943, Leonora è stata da subito molto attiva nella comunità di artisti espatriati che animava la città, partecipando con Octavio Paz e Juan Soriano al progetto Poesia en voz alta, facendo poi del teatro, grazie anche all’incontro con il giovane Alejandro Jodorowsky, uno spazio privilegiato di sperimentazione. E ancora le riviste, la scultura, le commissioni pubbliche, la scrittura, anche per i suoi bambini: Leonora non ha smesso di ricercare quel «qualcos’altro». Da donna, sapendo però che l’arte non ha genere: non ha mai perdonato Dalì per averla descritta come «la migliore artista donna surrealista».