Eugène Carrière, “Autoportrait”, New York, Metropolitan Museum of Art

 

Canagliesco Degas: «Un uomo maleducato che fuma la pipa nella camera da letto di un bambino malato». Ma anche Redon: «Un limbo… un limbo opaco in cui pallidi volti di un’umanità morbosa fluttuano come alghe», scrive nel 1906, anno di morte di Eugène Carrière, nel suo Journal. Idiosincrasie di poetiche entro un quadro d’epoca in cui il posto di Carrière era assicurato, e tra i vertici. Sarà così fino alla metà degli anni trenta. Poi il graduale prevalere dell’approccio formalista, che tagliava via ogni espressione estranea al generarsi delle avanguardie storiche, condurrà il pittore color tabacco su un binario morto: lì resterà, dimenticato, fino alla fine degli anni sessanta, quando comincia la stagione delle grandi mostre simboliste, dove naturalmente gli è riconosciuto il posto spettante. Matura un nuovo corso degli studî, si differenzia il gusto, viene riscritta, a canone più elastico, la storia della modernità, ma bisognerà aspettare il 1996 perché si realizzi un vero recupero di Carrière: la mostra monografica all’Ancienne Douane di Strasburgo, sotto la direzione di Rodolphe Rapetti, fra i più ferrati lettori dell’arte francese fin-de-siècle.
Oggi, dunque, può sembrare remota la detrazione, formulata per tutti da John Rewald in Post-impressionism (1956), «il mistero era ottenuto da Carrière per mezzo di un abile manierismo». Si è chiusa la parabola della critica militante, Carrière è riemerso… dall’ombra, eppure… Sembra proprio che i requisiti troppo particolari della sua opera, così consentanei al clima storico in cui egli operò, non giochino a favore di un reale apprezzamento presente. Il monocromo brumoso, deposito dell’ancestralità degli affetti familiari, di strani sogni, di una lenta dilatazione temporale, è come se fosse trascorso dall’inattualità della stagione segnata dal discrimine modernista a un altro tipo di inattualità, meno definibile, in un oggi che pure, per l’Ottocento, ha recuperato di tutto, fino alle espressioni più corrive.
2006, la mostra «double» al d’Orsay
Così, si ha la sensazione che solo il collegamento storico con Rodin, a lui amico, e di cui è considerato una specie di controfaccia pittorica, riesca a tenere in vita Carrière. Ricordiamolo: già nel 1929 Louis Vauxcelles aveva visto bene come l’«impressionismo» dell’ultimo Rodin molto dovesse a Carrière (e a Medardo Rosso). Parigi, per ridare una chance al pittore, ha avuto bisogno così, nel 2006, di associarlo al nome del progenitore della scultura moderna, nella mostra double del Musée d’Orsay. Era dal 1949 (Orangerie) che la capitale francese non offriva la pubblica scena a Carrière: ma non si è sentita di farlo per intero. Non parliamo dell’Italia, dove la tradizione sia longhiana sia venturiana spiegano un’indifferenza, se non degnazione, verso il pittore non riscattata da nuovi studi.
Di recente, a Strasburgo, sulle tracce di Carrière…
Aveva un anno, nato a Gournay-sur-Marne, sesto di sette fratelli, quando la capitale dell’Alsazia lo accolse nel 1850. Ci rimase fino al ’68, poi si spostò a Saint-Quentin, frequentandovi (come più tardi il suo futuro allievo Matisse) la scuola di disegno fondata da Quentin de la Tour, i cui ritratti a pastello gli rivelarono un mondo: li copia. Dal ’69 si stabilisce a Parigi, contro la volontà del padre: è profondamente colpito dai Rubens del Louvre; entra all’École des beaux-arts, nell’atelier del pompier Alexandre Cabanel. Nel 1878 sposa Sophie Desmouceaux e soggiornano a Londra, dove le effusioni luminose di Turner lo fanno riflettere.
Rue des Hallebardes, rue Maroquin, place du Marché-aux-Cochons-de-Lait, rue d’Or… un piccolo pellegrinaggio fra le troppe dimore abitate da Eugène bambino e ragazzo negli anni strasburghesi: stanno tutte lì, nel cuore a intagli lignei della città vecchia, dominata dalla cattedrale di Notre-Dame e dal castello dei Rohan. È qui nel castello meraviglioso – settecentesco, parigino, antica sede del principe-vescovo Rohan-Soubise – che troverebbero il vero habitat, inattuali fra gli Antichi Maestri del Musée des Beaux-Arts, i Carrière di Strasburgo: e non invece, come è, nello spettacolare Musée d’Art Moderne – vetro, europeismo – situato nella piazza dedicata all’altro figlio, più fortunato, della città, Jean (Hans) Arp.
Dal ritratto della madre, 1876, uno dei quadri più significativi del momento ‘realista’, all’autoritratto di circa il 1901, dove la facies sembra risucchiata da un gorgo, sono tutte opere realizzate a Parigi e acquisite dal museo nel tempo, a scopo rappresentativo. Del resto, le implicazioni artistiche del Carrière di stanza a Strasburgo si limitano a un timido affaccio sul mondo delle forme, con l’impiego dal litografo industriale Êmile Lemaître, a cui succederà Auguste Munch, figura di repubblicano fervente per il quale il nostro realizzerà, dopo la disfatta della Comune, l’incisione ricca di pathos Droits de l’homme: qui è il primo segno di quell’umanitarismo sociale di Carrière che gli interpreti faticano a conciliare con il flou allucinato della sua estetica intimista.
Questo politico è un aspetto della sua sfuggente personalità forgiatosi per gran parte intorno al destino della sua Strasburgo, sottratta dai prussiani ai francesi dopo un massacrante assedio che aveva convinto il pittore ad arruolarsi in difesa. Fatto prigioniero, fu trasferito a Dresda, dove resterà fino al marzo 1871: qui ebbe modo di accedere liberamente al museo e di incantarsi sulla Madonna Sistina.
Se Carrière nasce all’arte, del resto piuttosto lentamente, una volta installatosi a Parigi, l’infanzia strasburghese è all’origine della sua «personnalité de réel et de rêve»: così scrive di sé in alcune note ‘a bilancio’ del febbraio 1906, evidenziando la sua difficile posizione, da piccolo, di «enfant gâté», di «giocattolo di famiglia», entro una folta schiera di fratelli e sorelle maggiori. La promiscuità domestica dei primi anni avrà impresso sensazioni che poi riemergeranno nelle frequenti immagini di genere familiare. Le Maternità: Edmond de Goncourt, uno dei più risoluti aficionados di Carrière, ci vide in particolare l’Allattamento, la fusionalità della faccia del bebè, con le sue emergenze di luce nell’ombra. Tenerezza, animalità: un rito cui l’artista, padre di sette figli (numero ‘replicato’ dalla famiglia d’origine), assisteva quotidianamente, in una calma sospesa appena turbata dall’inquietudine materna. Genitore amorevole, gentile, poco tempo prima di morire, a 57 anni, si rivolge ai figli, già grandi a parte l’ultima nata: «Siete come volevo che foste, non potevo desiderare di meglio. Sono felice dei miei bambini belli e buoni».
Come succede che Carrière maturi lo stile che lo rende unico, deliberando di desaturare, di rinunciare radicalmente al colore? Il cambiamento non è improvviso: all’inizio degli anni ottanta il realismo con cui aveva preso le distanze dal diktat accademico comincia ad adombrarsi, ma il chiaroscuro non è ancora «il mot magique dont le trait d’union rend le connu e l’inconnu inséparables» (Claude Roger-Marx), non è ancora integralmente monocromo e corrosivo come diventerà: l’integrità delle forme è conservata, sicché Carrière risulta a quest’altezza un parallelo interessante, e più patetico, di Fantin-Latour, pittore che tiene, insieme a Degas e Monet, fra i preferiti. La stima nutrita per Monet avverte che la scelta di inoltrarsi nell’‘ incolore’ non è contrastiva e polemica: nella buona monografia del 1998, Valérie Bajou ha chiarito come Carrière «non ignori nulla delle preoccupazioni coloriste dei suoi contemporanei», preoccupazioni che si esprimono nei tocchi di puro croma con cui egli punteggia a volte, discretamente, il partito d’ombra.
Il lutto per il figlioletto «Toto»
Può anche darsi, come è stato scritto, che l’insistere ostinato sulla scelta di ridurre drasticamente i termini del visibile abbia alcunché di ascetico legato alla morte, nel 1885, a quattro anni, del suo secondogenito Léon, detto «Toto»: una specie di lutto in pittura. Certo è che il lutto verrebbe incontro a un approfondirsi delle ricerche sulla tavolozza sombre dei grandi seicenteschi, Rembrandt, letto da Carrière attraverso il filtro dei Maîtres d’autrefois di Fromentin («colorer sans coloris»), ma soprattutto Velázquez. Il Carrière della metà degli anni ottanta, autore di quadri ‘nuovi’ come L’Enfant au verre e il ritratto del ragazzino Marcel Lacarrière, rappresenta un capitolo davvero particolare e pungente della fortuna francese di Velázquez.
Edmond de Goncourt ha parlato di «un Velázquez crepuscolare»: giusto quanto ai risultati di quel momento, ma in realtà il Sivigliano sembra anche all’origine del procedimento ‘tecnico’ che farà di Carrière l’ineffabile originale che conosciamo. Lo rivela lui stesso in un brano citato nell’essay de biographie psychologique che gli dedicò, 1911, l’amico bergsoniano Gabriel Séailles: in Velázquez, spiega l’artista, «i tratti del volto, il naso, la bocca, sono preparati da quel che li circonda, l’arcata sopracciliare, gli zigomi, le mascelle», sicché «essi non sarebbero là, li si indovinerebbe». Qui è il nucleo operativo di quella fluttuazione delle forme, emersioni ‘momentanee’ di un universo metapsichico, ectoplasmi, immagini ‘postume’ che, anche memori delle non più recenti impressioni turneriane, troveranno il loro assestamento negli anni novanta.
La Bajou posiziona questo esito all’interno di una precisa lignée che, a partire da Delacroix (e senza dimenticare le telette «in fretta e furia» di Carpeaux e Daumier), qualifica sempre più l’‘incompiuto’, ‘pittorico’ per eccellenza, dove l’artista mostra i suoi procedimenti, che fanno corpo con il risultato finale. Non distinguendo il pittorico dal plastico, Carrière agisce sulla tela come a trarre l’immagine da un blocco, di qui, in concordanza stilistica con Rodin, l’inusitata organicità dell’insieme, che non conosce allentamenti, e che dovette impressionare Käthe Kollwitz nei suoi anni parigini.
Più si avvicina la fine del secolo, più questa organicità viene a realizzarsi in forma di arabesco nouveau, linea continua ondeggiante che sigilla e insieme ‘apre’ l’immagine: tutta di pennello, quando non si tratta dei sorprendenti disegni. In diverse tele non destinate all’annuale Salon, fra cui qualcuno dei rari paesaggi, sull’abbozzo preliminare in terra e ocra Carrière interviene ‘a sottrarre’, graffiando e raschiando via, secondo un procedimento mutuato dalla tecnica litografica, da lui ritrovata verso il 1890, con effetti vellutati che mimano la maniera nera. E nella foga dello sperimentare ci scappano anche, vedi la sorprendente Méditation di Strasburgo, saporitissime storpiature (le mani), che dovettero deliziare – più del camaïeu, su cui pure sembra modellasse la scelta di dipingere in blu – il giovane Picasso.
Simbolismo? In Carrière la categoria fa problema. Un critico simbolista penetrante come Gabriel-Albert Aurier lo capì subito, e inserì l’artista, 1891, nella sua serie sugli isolés – accanto a Van Gogh, Henner (che era stato importante per Carrière) e Henry de Groux –, sottolineando la temporalità delle sue immagini, sospese fra attualità e «voragine del ricordo»: un aspetto che fece presa sul Balla degli Affetti e che giustifica la chiave bergsoniana messa in valore dalla mostra strasburghese del 1996.
Carrière si tenne distante dalle riviste e dai cenacoli simbolisti, che pure lo esaltavano. La sua idea analogica dell’universo visivo è indubbia, ma deve contendere con una sensibilità realistica che tale resta anche nella fase finale, la più smaterializzata, e che fece di lui il ritrattista ‘fatidico’ che conosciamo: Portrait de Verlaine, al d’Orsay! Nella definizione di sé in una conferenza del 1900, «l’homme visionnaire de la réalité», il pittore riconosce perfettamente questa aporia.

Feconda aporia: all’Hôtel Biron (Musée Rodin), la galleria del teatro popolare di Belleville, nella vasta tela che segna l’apice fra i rari soggetti di vie moderne realizzati da Carrière, è un diorama di presenze, gli spettatori, sul punto di svanire in una nebbia marrone mossa da un sapiente gioco di sfumato: alcuni luccicano come stelle morte. Ma in questo svanire a congedo non smettono di essere persone vive e di incuriosirsi, come nelle scene analoghe di Daumier o di Degas, del momento irripetibile che la vita gli offre, l’incanto della scena.