«Evento significa cambiamento»: così, con lapidarietà degna di un trattato di ontologia, scrive Robert McKee, forse il più noto story consultant dell’industria hollywoodiana, nel suo vendutissimo manuale di scrittura cinematografica. Che Emmanuel Carrère sia, tra gli scrittori contemporanei, uno di quelli più legati al mondo del cinema, è risaputo. Al cinema sono da ricondurre i suoi esordi di critico e il primo libro da lui pubblicato, una monografia su Werner Herzog del 1982, e in seguito l’attività di sceneggiatore di molti film per il cinema e la televisione, tra cui adattamenti da romanzi di Simenon e di Fred Vargas, ed episodi della prima stagione della serie televisiva Les Révenants (2012).

Evento come cambiamento
Al contesto cinematografico, per molti aspetti, sono ancora da riportare le ultime uscite dell’autore per Adelphi, il romanzo I baffi («Fabula», traduzione di Maurizia Balmelli, pp. 149, € 17,00) e i due racconti/soggetti raccolti in Lingua straniera (ebook «Microgrammi», trad. di Ena Marchi e Giorgio Pinotti, € 1,99). Non tanto perché il primo sia stato trasformato dallo stesso Carrère in un film (da lui scritto e diretto nel 2005) e i secondi nascano dalla «commissione» di alcuni produttori inglesi, che avevano richiesto allo scrittore delle storie inquietanti; quanto perché sembrano portare all’estremo l’idea cinematografica di evento come cambiamento citata sopra, ed esplorarne a fondo il coté ontologico-esistenziale.
Nei Baffi, romanzo del 1986 già apparso in Italia prima da Theoria (’87) e poi da Bompiani (’90) ma adesso ritradotto, il protagonista, un architetto della buona società parigina, decide di tagliarsi i baffi, e questa semplice decisione innesta una vertigine di conseguenze dovute al fatto che nessuna delle persone che fanno parte della sua vita, a cominciare dalla moglie Agnès, ammettono che lui abbia mai avuto i baffi. Tale evento, una pietra lanciata in uno stagno d’acqua placida, crea onde concentriche di mutamenti nell’esistenza dell’uomo: dal sospetto che la moglie sia pazza, al dubbio sulla propria salute mentale, fino all’idea paranoica di un complotto ordito ai suoi danni da Agnès e da un collega, sicuramente amanti. A partire dall’episodio dei baffi, a poco a poco ma con costanza, altri frammenti nella vita del protagonista si modificano, si eclissano, svaniscono dall’orizzonte della presenza o dai ricordi. Nella mente del giovane architetto la cospirazione, da circoscritta alla sfera degli affetti e delle amicizie, si fa metafisica, un cambiamento nell’ordine del mondo di cui lui solo sembra essersi accorto e di cui insegue, senza riuscire ad afferrarlo, il significato. Con questo spostamento del senso si sgretola tutto ciò che puntella l’identità – la memoria e l’aspettativa verso il futuro – e al protagonista non resta che fuggire da casa, dal suo paese, dall’Europa, verso una Hong Kong quasi fuori dal tempo e dalla geografia, dove la sua esistenza vagabonda si esaurisce in microazioni che apparentemente lo salvano dalla follia, o che sono invece già il primo passo nell’incubo. E la conclusione del romanzo, in una stanza d’albergo a Macao, è una scena di rasatura in un certo senso speculare a quella che apre il libro, a suggerire una circolarità spaventosa proprio perché non chiusa, non risolta.
Similmente, nel primo dei due racconti di Lingua straniera, dallo stesso titolo, uno sceneggiatore si risveglia in un mondo in cui tutti si esprimono in un linguaggio a lui sconosciuto (ma rimane l’involucro di uno zuccherino a testimoniare che un’altra lingua è esistita!); nel secondo, Transfert, uno psicoanalista si trova proiettato passo a passo, sull’onda di una serie di piccoli mutamenti che sconvolgono la sua vita regolata more geometrico, nella squallida esistenza del più detestato dei suoi pazienti.
La devozione di Carrère nei confronti di Philip K. Dick è nota dai tempi di Io sono vivo, voi siete morti, biografia dello scrittore americano del 1993 (apparsa in Italia da Theoria nel ’95 e da Adelphi nel 2016), e ribadita ancora nel Regno e in un saggio della raccolta Propizio è avere ove recarsi (2015 e 2017, entrambi sempre da Adelphi). In questo testo – originariamente «prefazione» a una raccolta francese di racconti di Dick – Carrère scrive che le storie dello scrittore americano sono «ossessive variazioni sul tema dell’uomo indotto da un particolare banale a prendere coscienza che qualcosa non funziona, che la realtà non è la realtà». Da questa premessa, non è difficile comprendere dove Carrère abbia tratto l’ispirazione per I baffi e per i due racconti di Lingua straniera. L’ispirazione, però, non si riduce a un calco o a una variazione. Se lo scrittore francese eredita il metodo dickiano di messa in discussione del reale – quasi un’eco del dubbio cartesiano: come posso essere sicuro che il mio corpo e le cose del mondo non siano il prodotto di un genio maligno che mi inganna? –, se ne distacca nella risposta che dà a questo domandare ossessivo. O meglio, non tanto nella risposta, quanto nella mancata risposta, nell’impossibilità di rispondere.

Reframing dell’apparenza
Nelle storie di Dick, le indagini metafisiche sulla realtà, originate da quel «qualcosa che non funziona», possono sfociare in uno sbalorditivo reframing dell’apparenza – come accade ad esempio in Tempo fuor di sesto, citato proprio da Carrère nello stesso saggio, in cui il protagonista Ragle Gumm, a prima vista uno sfaccendato che passa il tempo a risolvere il gioco a premi di un quotidiano nell’America degli anni cinquanta, si rivela invece un analista del 1997 inserito dal governo in una vita illusoria, affinché possa continuare a svolgere il proprio compito di intercettatore di attacchi alieni senza avvertire l’onere di quel compito. O come credeva negli ultimi anni di vita lo stesso Dick, sicuro che la realtà del presente fosse l’ologramma di una vera realtà in cui l’Impero romano non era mai tramontato e lui stesso era il capo di una setta di cristiani in clandestinità. Nessun reframing, invece, nelle storie di Carrère: qualcosa non funziona, ma non c’è un codice in cui re-inscrivere quell’evento. Al contrario, l’evento riluce come qualcosa di assoluto, gratuito e senza perché, che ha il potere di plasmare l’identità, invece che di rapportarsi a essa dall’esterno. Non è qualcosa che il soggetto fa, ma qualcosa che fa il soggetto. Non siamo noi a portare i baffi, a parlare una lingua, ad avere un ruolo sociale e professionale, ma sono tutte quelle cose – o il loro contrario – a individuarci.
Connesso a ciò, è da sottolineare come i protagonisti di queste storie di Carrère siano maschi alto-borghesi, appartenenti all’élite sociale e culturale: un architetto, uno sceneggiatore, uno piscoanalista – insomma, in qualche modo degli alter ego dell’autore. Questo fa ripensare a una famosa pagina di Limonov in cui Carrère commentava il fatto che lo scrittore protagonista del suo récit avesse còlto una somiglianza di design tra i lavabi della prigione di Saratov, in Russia, e quelli progettati da Philippe Starck di un albergo di New York. Limonov era così forse l’unico uomo, a cavallo tra quei due mondi, in grado di afferrare tale somiglianza, e ciò rivelava come la sua esperienza comprendesse «universi così differenti». Mentre, continuava Carrère esaminando la propria appartenenza a un ambiente borghese, elegante e sostanzialmente radical-chic, «non si può dire che la vita mi abbia condotto lontano dal mio punto di partenza, e lo stesso vale per la maggior parte dei miei amici». Al contrario, i protagonisti dei Baffi e dei racconti di Lingua straniera finiscono lontani dal loro punto di partenza, si trovano, anche se loro malgrado, ad attraversare universi differenti. Ma questi «ultimi uomini» che vivono «in un paese tranquillo, in fase di declino, dalla mobilità sociale ridotta» non hanno in sé stessi le risorse per farlo: hanno bisogno che a trasformarli, a cambiarli, intervenga un evento assoluto – tragico o miracoloso che lo si voglia considerare.