Vite che non sono la sua. Da molti anni Emmanuel Carrère si dedica a scrivere vite di altri: entra nella pelle di figure toccanti – per eccezionalità di carattere ed esperienze o per inesorabilità di destino – senza uscire dalla sua, di pelle. Non si tratta di sovrapposizione né di confusione, piuttosto di attenta dinamica, di passaggio fluido, misurato, vibrante il giusto e altrettanto capace di far scaturire riflessioni. Non sono mascheramenti, la distanza può essere varia, ma è sempre percepibile, e di qualità dialogica. Tra autore e soggetto delle sue biografie c’è una relazione stretta che non è mai una strada a senso unico. C’è un moto vivo, complesso, che permette scambi e confronti, andirivieni tra l’io d’autore, che s’interroga e ricorda episodi della propria vita, e la terza persona di cui racconta con una familiarità sicura, acquisita con dedizione e curiosità. La soluzione è brillante, o quanto meno ha successo. Un successo crescente, raggiunto per gradi. L’Adversaire, che ricostruiva la vita e le plaghe di buio psichico di Jean-Claude Romand, gli valse, nel 2000, forte riconoscimento di pubblico. D’autres vies que la mienne, del 2009, gli ha portato un Globe de Cristal. È però con Limonov, diventato presto un best-seller, che Carrère ha ottenuto nel 2011 il Prix Renaudot, e poi a seguire il Prix de Prix e il Prix Europeèn de Littérature.

Diversi anni prima, però, nel 1993, Emmanuel Carrère aveva inaugurato la serie di vite altrui scrivendo quella di Philip K. Dick, rubricata sotto un titolo esegetico, la scritta che nel romanzo Ubik Runciter lascia sul muro del bagno, messaggio ai compagni messi in semivita, con i corpi nel ghiaccio e le coscienze ridotte a fiammelle pallidissime, frammenti mnemonici sfilacciati: Je suis vivant et vous êtes morts. Messaggio di aiuto, svelamento di una condizione falsa, capovolgimento di una persuasione fallace. A quella prima biografia Carrère si era dedicato su consiglio del suo agente: «Sono tre anni che non scrivi più niente, sembri a pezzi, devi fare qualcosa. Che ne dici di una biografia? È quello che fanno tutti gli scrittori in crisi». Carrère, che amava Dick fin dall’adolescenza, propone il soggetto e si dedica con passione a quel progetto «più umile del grande romanzo» che non riusciva a scrivere, ha dichiarato anni dopo, nel suo Royaume. All’epoca il libro su Dick «non ha avuto il successo» che il suo autore sperava. Oggi, dopo la ricostruzione della vita di Romand, uomo dalla «vita di fantasma», falsa, finito pluriomicida, raccontata nell’Avversario (Adelphi 2013), dopo l’espressione di limpida pietas di Vite che non sono la mia (Einaudi 2011), dopo il ritratto plurisfaccettato di un poeta impetuoso e fragile, quasi terrorista e criminale di guerra, eccessivo e ostinato come Limonov (Adelphi 2012), e dopo quel libro impegnativo e ambizioso sospeso tra autoanalisi e storia e filosofia del cristianesimo che è Il Regno, (Adelphi 2015), si ha l’impressione che anche la biografia di Philip K. Dick possa ricevere maggiore ascolto.

Meglio si comprendono, oggi, il passo sintattico e il respiro ritmico di Carrère, e meglio, anche, il suo metodo ricostruttivo: la presa eminentemente letteraria, da scrittore esperto che indaga nei meccanismi narrativi, nei lampi e nelle secche, nelle forzature e nelle sorprendenti trovate risolutive di un collega. Meglio si comprende la sua cifra architettonica: l’incastro, la rispondenza a volte messa in luce, anche con nonchalance, tra la prima e la terza persona, tra soggetto narrante e soggetto biografico. È quanto appare dalla nuova traduzione di Io sono vivo, voi siete morti appena proposta da Adelphi (traduzione di Federica e Lorenza Di Lella, pp. 351, euro 19,00). Carrère interpreta Dick al modo in cui poi si è convenuto, come uno scrittore che per anni ha inteso destare, avvertire, mettere in guardia, con ossessività e insieme con generosità, dubbioso di tutto e di tutti, finanche di se stesso, forse plagiato, forse già sostituito pure lui. Come il Glen Runciter di Ubik, «un uomo vivo che si sforzava di entrare in contatto con le coscienze dei morti che siamo in realtà. Un uomo capace di risvegliare».

Il nucleo irresistibile, credo, delle opere di Philip Dick è la forza con cui continuamente ci pone di fronte al dubbio sulla realtà, e sul rapporto tra bene e male, tra vita e morte. È la necessità urgentissima, vitale – per l’autore e poi per chi ne coltiva la lettura – di una relazione, di una comunicazione autentica, contro il profluvio d’informazione che sommerge il presente illudendo di fornire notizie e paralizzando invece le coscienze, addormentandole nell’eccesso ingestibile, non filtrabile, di parole pagine immagini suoni.

A dispetto del suo «stile piuttosto sciatto», scrive Carrère, Dick è capace però di «brani memorabili, che non solo fanno venire i brividi, ma che ci danno anche la sensazione di aver intuito qualcosa di essenziale, di basilare. Di aver intravisto un abisso che è parte integrante del nostro essere e che nessuno aveva mai sondato prima». Abisso socio-politico o abisso personale: che siano i regimi totalitari, spesso allusi, ricostruiti in mondi asfittici con lo scopo di «tagliare fuori le persone dalla realtà», o che sia il perturbante che ciascuno sperimenta, il freudiano Unheimlich che è per Dick racchiuso nella «parola eldritch», nella visione delle sue stimmate, nella «faccia del cielo» che d’un tratto squarcia il velo che nasconde la realtà.

Non è tanto nella sua eccezionale personalità, nella lama su cui oscilla tra psicosi e lucidità, nei suoi sdoppiamenti, il fascino di questo scrittore eccentrico, «strampalato», che voleva scrivere letteratura mainstream e che invece rivelò strade nuove nella paraletteratura, o letteratura di genere praticata a cottimo da cui la sua austera, «maniaca, fredda, predatrice» terza moglie era tanto delusa. Non è nell’esistenza controcorrente di eccessi, di separazioni, errori, entusiasmi. Il suo fascino, piuttosto, oltre che nel ruolo dell’imprevedibile astutissimo «Ratto» – nella variante del Monopoli da lui inventata per sovvertire le speculazioni, i borghesissimi scambi e acquisti di immobili cui si dedicavano per gioco le figlie di Anne –, è equamente diviso tra «l’istinto del clandestino» che lo abitava e la passione con cui cercava, una verità magari solo penultima ma capace di assorbire la passione della quête e dei suoi deragliamenti, della sua esplosione di possibilità. Nel contempo mostrando, ha ben ragione Gabriele Frasca che gli ha dedicato una monografia (L’oscuro scrutare di Philip K. Dick, Meltemi 2007) e un rinnovato capitolo di analisi della Trasmigrazione di Timothy Archer (La letteratura nel reticolo mediale. La lettera che muore, Sossella, 2015), sia l’ossessione e la pena infinita della morte, sia la necessità gnostica di «ingoiarla» per sconfiggerla in vita; sia, nel suo ultimo romanzo – che non è «il séguito del delirio mistico-politico a due di Valis» – il disvelamento di un ordigno, di un passaggio oltre o accanto alle parole, di un «nutrimento».

Per tornare a quest’autore, allora, e ai suoi ordigni, la biografia scritta da Carrère è un’ottima esca: gradevole nella sua prosa disinvolta, forse troppo borghese e intelligente, con riusciti azzardi di indiretto libero, felicemente non agiografica come quella documentatissima e molto «americana» di Lawrence Sutin, ma appassionata e legittimamente focalizzata sull’empatia – la carità di San Paolo –, il contrario di ciò che per Dick è la «fonte di tutto il male», cioè «il ripiegamento, la chiusura dell’individuo in se stesso», in una sconfortante, tombale «povertà di sentimenti