Come tutte le avanguardie, anche il Festivaletteratura di Mantova si è fatto tradizione, un passaggio consumatosi velocemente, mentre nei sedici anni scorsi guadagnava suo malgrado proseliti, ormai un profluvio di festival, molti dei quali cattivi imitatori ma avvantaggiati dall’essersi ritagliati una data nel lungo calendario della buona stagione che precede la scadenza mantovana. Tutti i fine settimana da marzo a settembre sono, infatti, e già da anni, monopolizzati da rassegne letterarie, filosofiche, matematiche, artistiche, spettacolari, per tacere delle più modaiole declinazioni della cosiddetta cultura gastronomica, così che troppo spesso chi arriva a Mantova è già stato in Italia nel corso dell’anno, e anche più di una volta, o più di due, o tre.
Converrebbe, allora, guardare al calendario editoriale dell’anno che verrà, senza la pretesa di giocare d’anticipo sui libri in fieri – strategia che comunque, e per fortuna, verrebbe resa impraticabile dalla case editrici – ma contando sul background di quegli autori che, presumibilmente, faranno riparlare di loro nei mesi a venire. Il pubblico ne trarrebbe il vantaggio di familiarizzarsi con scrittori di cui vedrà annunciare un nuovo titolo di lì a qualche mese, e il festival eviterebbe di scontare il già visto, già sentito, già letto.

Due autori quasi coetanei

Due tra gli scrittori letterari più noti, Peter Cameron e Emmanuel Carrère, per esempio, arriveranno a Mantova preceduti da un coro mediatico la cui eco sarà difficile sovrastare; ma saranno comunque in molti, come sempre, a concedere il gusto di trovarsi personalmente di fronte a una celebrità di cui hanno così tanto sentito parlare. In entrambi i casi, come spesso accade, la fama dei due autori non è legata ai loro libri migliori: Peter Cameron, un simpatico over cinquentenne del New Jersey, anche editore della piccola Wallflower Press, ha guadagnato a sé le simpatie di un pubblico via via più affezionato con un romanzo effervescente e ironico titolato Un giorno questo dolore ti sarà utile, che esaltava le promesse già diffuse tra le pagine di Quella sera dorata, due libri affidati al protagonismo di uomini irrisolti – James, un ragazzo che tutti considerano disadattato, e che si trova a suo agio solo con la nonna, e Omar un giovane studioso continuamente rimproverato dalla sua ragazza perché esasperatamente tentennante e di scarso fegato. Ma al suo libro migliore Peter Cameron è approdato di recente, nel 2012, scegliendo come titolo il nome della sua prima protagonista femminile, Coral Glynn, una infermiera approdata nel mezzo di una cupa primavera inglese del 1950 a villa Hart, dove si trattiene il poco tempo che resta da vivere alla padrona di casa. Poi se ne va nonostante abbia nel frattempo accettato la proposta di matrimonio del figlio, un uomo solitario e reso misantropo dal senso di menomazione fisica che le sue ferite di guerra gli hanno lasciato.
Ma non è questa triste eredità a impedire al matrimonio con Coral Glynn di realizzarsi; qualcosa sembra essere successa nel frattempo, qualcosa che la ragazza ha visto e di cui ha istantaneamente rimosso le conseguenze possibili: quanto basta a rederla perseguibile, costringendola a fuggire. Anche il maggiore Clement Hart, protagonista maschile di questo che rimane l’ultimo romanzo dell’autore americano (sebbene la Adelphi abbia successivamente fatto uscire una novella del 2004 titolata Il weekend) è un uomo titubante, che non sa bene quale sia il suo ruolo nel mondo, il cui destino dipende ancora in buona parte da un vecchio amore maschile, comunque mai a suo agio con ciò che lo circonda, peculiarità che Cameron considera lo riguardino da vicino: «questi personaggi mi somigliano – ha detto – mi ricordano il mio stato confusionale.»
Diversamente da altri caratteri femminili già espolorati da Cameron, alcuni dei quali molto determinati e dotati di una certa sicurezza intellettuale, Coral Glynn è una donna modesta, quasi primitiva, connotata da una scarsa immaginazione e un pressoché nullo spirito di intraprendenza: «mi pare che rappresenti una esagerazione di ciò che io stesso provo nello stare al mondo – ha detto Cameron, – è una sorta di esasperazione della mia natura.» Per di più, durante tutto il corso del romanzo, è come se a determinare i fatti fosse solo il destino, mai la volontà degli uomini. Ne deriva un desolante senso di abbandono al corso degli eventi, e l’atmosfera di straniamento è incoraggiata dal fatto che i personaggi sembrano incapaci di agire a proprio vantaggio: dunque, le cose non vanno mai per il verso giusto, a cominciare dal matrimonio di Coral con il maggiore Hart. Tutto ciò comporta, nel lettore, un vissuto di sistematica frustrazione, che alimenta costantemente il fascino del libro.

Dalla vita al romanzo
A

nche nel destino di Emmanuel Carrère era scritto che il clamore del successo non avrebbe coinciso con il suo romanzo migliore, bensì con quello che esibisce un piglio più decisamente giornalistico, essendo scritto comunque in modo magistrale: il titolo Limonov, corrisponde al nome di un avventuriero, nonché filibustiere russo, di cui l’autore francese ricostruisce, in forma di romanzo, la rocambolesca biografia. Prelevare i personaggi da storie realmente accadute è una scelta ricorrente in Carrère, sia che i protagonisti siano ignoti al pubblico – come avveniva in Vite che non sono la mia, un incrocio straziante tra affetti e malattia – sia che la cronaca dei fatti abbia già occupato i giornali, come nel caso di Jean-Claude Romand, il protagonista dell’Avversario, che essendosi spacciato durante tutta la vita per il medico che non era, restò prigioniero di quella bugia e imbastì intorno a sé un romanzo narcisistico, portato a termine con la strage della sua famiglia. Sono questi due, probabilmente, i romanzi letterariamente migliori di Carrère, ma di certo Limonov è particolarmente avvincente grazie a un abile montaggio dei dati biografici del personaggio alternati a quelli dell’autore e proiettati sullo sfondo di un arco storico che va dall’Unione Sovietica di Chruscev alla Russia di Putin, in un andirivieni di flashback e speculazioni immaginative.
Ciò che ha attratto Carrère, quando si è imbattuto nella storia di Limonov, lo ha spiegato lui stesso: «semplicemente, il fatto che è un personaggio odioso. È un egocentrico, che nutre un disprezzo sovrano per tutto quanto riguarda la vita ordinaria, mostruosamente narcisista e per certi versi molto puerile: di fondo è un fascista, da un punto di vista non soltanto politico ma esistenziale, il che non gli impedisce di essere un uomo piuttosto onesto, coraggioso e dotato di un certo fascino. Quello che più mi ha colpito, però, è che di tutto quanto ho pensato sul conto di Limonov, prima o poi ne ho visto anche il lato contrario.»
Qualunque cosa Carrère dirà al suo pubblico, è certo che la sua retorica si esprime al meglio sulla pagina scritta, perché sembrano non esserci limiti alla sua versatilità descrittiva, sia che si cimenti con esperienze sessuali al limite della follia, sia che sia attardi in minuziosi resoconti di capziosità giudiziarie, sia che si addentri nella crudeltà, sia che affronti la perdita di una persona amata, senza mai ripararsi nella allusività o nella distanza implicata dall’ironia. E dunque, in definitiva, traducendo in sofferti passaggi di una scrittura, che è lenta nel suo farsi e veloce nella resa, il coraggio necessario a affrontare il dolore.