Lucia è argentina, e ha deciso di attraversare la penisola con il progetto Carovane Migranti che, dal 2 aprile, ha già compiuto diverse tappe e che si concluderà in Sicilia il 17 aprile. Un progetto «orizzontale nato nel 2014 da una comunità di persone che non vuole restare a guardare – dice Lucia – e che quest’anno percorre l’Italia per denunciare le situazioni di sfruttamento dei migranti e anche per avvicinarsi alle buone pratiche.

Per questo, il primo appuntamento ha avuto luogo a Mondeggi, vicino a Firenze. Lì, una comunità di contadini ha occupato una terra abbandonata, che prima era di proprietà di un’azienda privata, poi fallita, e ora pratica l’agricoltura sostenibile e comunitaria. All’Aquila, abbiamo incontrato i movimenti dell’Abruzzo, a Pescara quelli No Triv e poi siamo partiti alla volta di Lanciano, per incontrare le madri della Terra dei fuochi, e in seguito verso Altamura per denunciare lo sfruttamento nei campi di raccolta».

Il progetto si ispira alla Caravana Centroamericana che, da 11 anni, insieme al Movimiento Migrante Mesoamericano cerca gli scomparsi alla frontiera tra Messico e Stati uniti. Una carovana di madri, instancabili e coraggiose. Per questo, il progetto ha ricevuto l’appoggio di Vera Vigevani, una Madre de Plaza de Mayo, che ha perso il nonno nel campo di concentramento nazista ad Auschwitz e la figlia in quelli della dittatura civico-militare argentina (30.000 scomparsi fra il 1976 e l’83). E c’è il anche il sostegno di Amnesty International e dell’ex console italiano in Argentina, Enrico Calamai, che durante la dittatura ha aiutato gli oppositori a fuggire. Per denunciare il sorgere di nuovi egoismi e di nuovi fascismi, cementati dal cinismo della fortezza Europa, ma per caratterizzare anche la resistenza di chi vi si oppone, si riporta al Mediterraneo persino una parola mutuata dalla storia recente delle dittature latinoamericane, che hanno sterminato gli oppositori per sconfiggere «il pericolo rosso».

Nella delegazione sono presenti tre testimoni centroamericani: Omar Garcia, uno degli studenti messicani sopravvissuti al massacro di Ayotzinapa, Ana Gricelides Enamorado, madre honduregna della Caravana di Madres Centroamericanas buscando a su migrantes desaparecidos, e Maria Guadalupe Herrera, delle Patronas di Amatlan de los Reyes, nello stato messicano di Veracruz. Partecipa anche Imed Soltani, insieme a due genitori tunisini di Terre pour tous, l’associazione che, dal 2011, cerca i figli desaparecidos. E una delegazione algerina composta da Koucela Zerquine e Kamel Belabed, avvocato e padre di uno degli scomparsi di Annaba: ragazzi partiti per mare e arrivati in Italia, e poi spariti nel nulla. Per questo, Carovane migranti farà tappa ad Agrigento, ultimo centro in cui i giovani sono stati registrati. E l’ultimo giorno, vi sarà una manifestazione contro Frontex.

Realtà apparentemente lontane. Separati da un oceano, Centroamerica e Mediterraneo – spiega il progetto – sono invece realtà sempre più simili, «con i popoli in fuga da guerre, criminalità organizzata, degrado ambientale, furto di terre e risorse».

Guadalupe Herrera racconta al manifesto il lavoro delle Patronas. Un gruppo di donne che non hanno beni, né aiuti, ma che, «vedendo i migranti attraversare il Messico sul treno soprannominato La Bestia sotto la calura o nel freddo» hanno deciso di portare loro cibo e acqua. Quando passa il treno, le donne gridano: «Comida!» e lanciano un sacchetto con riso, fagioli e acqua.

«Carovane migranti – dice al manifesto Ana Enamorado – consente di far conoscere la nostra esperienza all’Europa e di conoscere a nostra volta quel che accade nel Mediterraneo. Mio figlio è scomparso nel 2010. Due suoi amici, con cui aveva abitato e lavorato sono stati sequestrati e uccisi in quell’anno. Ho chiesto aiuto alle autorità messicane, ma non ne ho avuto. Così, da tre anni mi sono trasferita in Messico. Al governo, non importa niente dei migranti. Durante la ricerca dei 43 studenti scomparsi, quando incontravamo qualche fossa comune, dicevano: “lascia perdere, questi sono clandestini”. Allora noi andiamo in giro con i cartelli al collo e la foto dei nostri familiari, rischiando la vita. Ne abbiamo già localizzati 250: qualcuno è stato forzato dalle mafie a lavorare per loro, altre ragazze sono state vendute nei postriboli, uno era in carcere condannato a 50 anni perché obbligato a dichiarare sotto tortura un delitto che non aveva commesso. Di fronte all’indifferenza colpevole delle autorità, noi non ci arrendiamo, giriamo il paese per chiedere verità e giustizia».

I migranti honduregni scappano dalla miseria e dalla paura: «Spesso – dice Ana – arrivano le bande a cacciarci di casa per requisire l’appartamento. Oppure ci dicono: ecco i soldi per mantenere tua figlia, poi però ce la devi dare. E se ti ribelli, finisci come l’ambientalista Berta Caceres. Il suo è stato un crimine di stato, e dobbiamo andare avanti anche per lei».