Palazzo della Gran Guardia, a Verona, accoglie in queste settimane un’ambiziosa mostra sul pittore Giovanni Francesco Caroto che visse e operò in città, e non solo, negli anni che fanno da ponte tra il Quattro e Cinquecento (a cura di F. Rossi, G. Peretti, E. Rossetti, Caroto e le arti tra Mantegna e Veronese, catalogo Silvana Editoriale, preceduto da un più corposo volume di studi del 2020, a cura degli stessi autori e stampato dal medesimo editore).

Grandi pannelli color ottanio accolgono il visitatore nei saloni del piano nobile, dove le opere sono esposte nell’avvolgente luce naturale che entra dai finestroni (e in questi tempi di mostre buie, dove il nero la fa da padrone, è un piacevole e inaspettato sollievo).
È chiara fin dall’ingresso la complessità del pittore veronese e la difficoltà di costruire una mostra sulla sua vita artistica: Mantegna, Liberale e le epigrafi antiche sono gli elementi imprescindibili di una formazione veneta di impronta antiquaria, mentre la citazione dalle Vite vasariane, la prima di molte altre, è la consacrazione nel pantheon della letteratura artistica del Cinquecento e ne testimonia la fama raggiunta.

Il percorso che segue non è così intuitivo da afferrare, forse a causa dei setti che frazionano non sempre razionalmente il grande ambiente, forse anche perché l’evoluzione pittorica di Caroto non è mai lineare: il suo continuo guardare a modelli celebri, a disegni, stampe, idee e declinazioni di stile che lo circondavano, ne fa un artista poliedrico, mutevole e davvero difficile da inquadrare.

L’esposizione procede cronologicamente, creando una biografia che è soprattutto geografia, perché Caroto, nato nelle terre dell’Adda, crebbe a Verona, ma questa, seppur parte dei domini della Repubblica Serenissima, era troppo lontana dalla Laguna per non uscire dalla sua stretta orbita di influenza. Il pittore, spinto da questo sguardo verso ovest, si mosse infatti in quelle città padane che nei primi decenni del Cinquecento erano rette da corti colte e frequentate da grandi maestri.

Formato nel tardo Quattrocento, a Verona, tra le opere di Andrea Mantegna delle chiese di San Zeno e di Santa Maria in Organo, dove lo zio di Caroto era cappellano, nella prima decade del nuovo secolo Giovanni Francesco sarà affascinato dalla vicinissima Mantova di Francesco II Gonzaga e da quell’aria di Maniera Moderna che seguirà la morte del genio padovano. Credo che proprio in quella corte padana possa aver conosciuto il medaglista che si firmava ‘MEA’, probabilmente quel Gian Marco Cavalli (Marcus Equi Aurifex) che incideva per Mantegna e senza il quale non si spiega la magnifica grande medaglia esposta che Caroto firmò al rovescio.

Giovanni Francesco Caroto, “Madonna col Bambino seduta su una roccia”, 1530 ca., Parigi, Musée du Louvre

Poi arriva a Milano, dove si era appena trattenuto Leonardo, prima della partenza per la Francia, dove dipingevano Zenale, Luini, Bramantino e dove si addolciscono i volti, si sfinano le ciocche di capelli e i paesaggi sono avvolti nella nebbia. Ultima tappa, 1515, Casale Monferrato, marchesato dei Paleologo, dove Caroto diventa artista di corte e realizza sia ritratti, quasi tutti perduti, a eccezione della medaglia per il piccolo Bonifacio II, sia dipinti di grande potenza emotiva. Tra questi il San Sebastiano dalla casalese chiesa di Santo Stefano, qui in dialogo con il Bramantino già Aldobrandini, o il Compianto orizzontale di collezione privata, nel quale un ricercato realismo fa gonfiare le ferite infette e scendere lacrime d’ambra sul volto di una disperata Maddalena, che volge gli occhi al cielo mentre tocca la gamba di un Cristo morto con i capelli così fulvi, che non può che essere lombardo.

Il Ritratto di fanciullo ridente con disegno del Museo di Castelvecchio, il pezzo più noto e avanguardistico dell’artista veronese, è al centro di una sezione che si snoda tra il tema del ritratto e quello dei dipinti sui moti dello spirito. Stando a Vasari Caroto fu un prolifico pittore di ritratti, ma a causa della sua mutevolezza di stile, questo suo corpus è ancora in via di definizione. Da poco, ad esempio, è stata riscoperta la sua firma sul fondo scuro di un Ritratto di gentildonna del Louvre: chissà se un giorno si riuscirà anche a rintracciarne l’identità, sicuramente celata dietro quelle lettere dorate che le cingono la testa.

Al ritorno a Verona nel 1523 Giovanni Francesco è un pittore maturo e ben informato sul panorama artistico dell’ovest padano, ma il suo aggiornamento continuerà anche sulla nuova maniera emiliana di Garofalo e Dosso e sul classicismo raffaellesco, come dimostrano le tavole dell’Accademia Carrara di Bergamo, e la Natività della Vergine, ora a Sibiu in Romania, dove un turbine di putti, adagiati su una nube che è prolungamento ideale del baldacchino del letto di sant’Anna, accompagna un Padre Eterno che dall’alto benedice la nascita.

Prima di giungere nei Balcani, la piccola tela era stata ab antiquo nelle case dei veronesi Mario Bevilacqua e Agostino Giusti e questo spunto di storia collezionistica è la chiave per comprendere l’ultimo troncone della mostra. Raccoglitori di antichità romane, dalle epigrafi alle monete degli imperatori, ma anche di manufatti artistici rinascimentali che a questi si ispirassero, le famiglie nobili veronesi costruirono tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento importanti collezioni di opere d’arte. Tra questi, coetaneo e amico dei Caroto, sia di Giovanni Francesco che del fratello più giovane Giovanni, anch’egli pittore, vi era Giulio Della Torre, giurista, dedito alla scrittura di trattati etico-filosofici, ma anche alla produzione di piccoli oggetti in bronzo, soprattutto medaglie, una delle quali reca proprio il ritratto di Giovanni e fu uno scambio artistico con un dipinto, purtroppo perduto, realizzato dall’amico con il suo volto. Si conservano, invece, altre testimonianze pittoriche di questo rapporto, pezzi che negli anni trenta decoravano lo studiolo del giurista veronese, di cui resta racconto in una descrizione del naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi, e che ne fanno il tipico prodotto di quella cultura in cui antico e moderno, sacro e profano, si fondevano senza troppe distinzioni e senza soluzione di continuità.

Fa da contrappunto alla biografia di Giovanni Francesco, quella del fratello Giovanni, anch’egli pittore, ma orientato più verso la Dominante, che non verso le terre lombarde. Se da una parte Giovanni si dedicò a una produzione pittorica per le chiese cittadine, documentata anche da Vasari, dall’altra fu inevitabilmente attratto dalle antichità che Verona offriva e ne disegnò non solo alcune dettagliate mappe, esposte in mostra, ma anche tutte le vestigia antiche. E in mostra basta scostare una tenda, per trovarsi di fronte l’Arena.

Non manca un utilizzo intelligente delle nuove tecnologie e, in particolare, per un ambiente suggestivamente evocativo come quello della Wunderkammer di Francesco Calzolari, speziale veronese che aveva una bottega in piazza delle Erbe, così come Caroto, che ne aprì una poco distante assieme al figlio Bernardino. Riprodotta a partire da un’incisione del 1622, la stanza piena di naturalia e artificialia è popolata dall’ologramma di Calzolari che racconta della sua collezione e della sua spezieria, attorniato da oggetti reali esposti in primo piano (provenienti dal Museo di Storia Naturale di Verona) e da proiezioni che ampliano il discorso.

Caroto ne risulta un pittore complesso: la sua mano sparisce dietro input diversi, stampe, disegni che l’occhio allenato riesce a cogliere, poi ricompare in qualche oggetto particolare, espressione, lacrima o ciocca di capelli. Difficile da afferrare, come già scriveva Vasari.