Ci sono dei momenti in cui l’album di famiglia oltrepassa i limiti oggettivi della soggettività, aspirando a diventare contenitore di sentimenti e memorie. Insomma, un territorio costruito intorno alla fotografia che, pur non essendo esattamente neutro, è in qualche modo condivisibile. È stato così per Carolle Bénitah (Casablanca 1965, vive e lavora a Marsiglia) quando, nel 2001, da un percorso nell’ambito della moda (è diplomata all’Ecole de la Chambre Syndicale de la Couture Parisienne); ha trovato nella fotografia, su cui interviene con il ricamo, il mezzo a cui affidare la sua creatività, così come le inquietudini.

Nel suo studio nella zona del Vieux-Port di Marsiglia, a metà tra boutique (L’Atelier Trois) e studio d’artista, la tenda bianca con le nuvole ricamate con il filo rosso delimita gli spazi. Basta aprire (o chiudere) la tenda e cambia la prospettiva, ma non quel rispetto e quel sentimento di condivisione che si percepisce spostando lo sguardo dalle sue opere alle fotografie, ai libri, alle ceramiche e agli altri oggetti di design di altri interessantissimi artisti contemporanei, tra cui Karine Maussière, Edith Laplane, Tché Van Thuan.

Carolle Bénitah cita Louise Bourgeois, Kiki Smith, Frida Khalo e Eva Hesse, «donne molto forti che tirano fuori le emozioni». Ha appena terminato una serie sulle fotografie anonime e un grande progetto sul desiderio; è autrice del libro Photos Souvenirs, uscito per Kehrer due anni fa. Attualmente le sue fotografie fanno parte della collettiva Photographes (Le Cellier, Reims fino al 28 luglio).

Com’è nata l’idea di «Photos Souvenirs»?
Come molti fotografi, anch’io penso che un modo per far vivere veramente un lavoro sia il libro. Soprattutto nel mio caso, trattandosi di un lavoro molto complesso che si divide in tre fasi, l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. Così, man mano che il progetto andava avanti ho cominciato a concentrami sul libro. Pur non avendo alcuna esperienza in questo ambito, non volevo che fosse qualcosa di narrativo.
Doveva essere un libro d’artista. Ho fatto tutto da me realizzando una prima maquette. L’unica regola che mi ero posta era il filo cronologico. Ma quella prima bozza non mi soddisfaceva, così mi sono seduta e ho cominciato a creare una linea immaginaria a tre quarti del foglio, disponendo le foto sopra e sotto. Simboleggiava gli alti e i bassi della vita. Ci sono quattro formati diversi di immagini. Volevo rendere l’idea di pagine in cui fossero presenti anche i vuoti, proprio come negli album fotografici dove è stata tolta la fotografia. Per ogni periodo, a cui faccio corrisponde un colore, c’è l’attenzione a dettagli precisi. L’infanzia è sottolineata dal rosso, un colore che simboleggia una serie di emozioni violente. È relativo anche alla sessualità e al sangue. Per l’adolescenza ho scelto il nero che è associato all’angoscia, un sentimento molto presente a quell’età. Per l’età adulta, invece, mi sono concentrata sulle mani usando il giallo-oro che è anche simbolo del legame affettivo che ci si scambia e della fedeltà. Ma esprime anche il non desiderio, come nelle icone sacre che sono tutte dipinte d’oro.

Il libro sintetizza anche la sua provenienza dai due mondi della moda e della fotografia, proprio attraverso l’uso del filo rosso?
Sì. Mi sono servita del ricamo, che generalmente è usato nella sua funzione decorativa di abbellimento, per dire cose che non sono sempre così facili da dire. È anche una riflessione sul tempo, perché ricamare sulle stampe ne richiede parecchio. Così come sul momento in cui viene fatta la foto e su quello del mio intervento sull’immagine. Simboleggia, comunque, il lavoro delle donne.

Quando ci siamo incontrate per la prima volta a Parigi nel 2012, in occasione di «Paris Photo» dove presentava i primi due cicli dedicati all’infanzia e all’adolescenza, ha citato sua nonna Esther che era sarta. Il ricamo rappresenta anche un legame con una storia di famiglia?
Più che altro è una considerazione sul fatto che molto spesso facciamo delle cose malgrado la nostra volontà. Quando mia nonna si è iscritta alla scuola per sarta e ha fatto quel mestiere, l’ha fatto per vivere. È stato un lavoro duro che non le portava piacere ma molto dolore. Anche per me è stato doloroso. Quando ho cominciato a ricamare sulle stampe mi dicevo «adesso attacco la fotografia!». Era doloroso sia dal punto di vista tecnico che emotivo.

Nel 2001, quando ha iniziato a ricamare sulle fotografie, era un momento piuttosto difficile della sua vita…
Nel 2000 mi ero presa un anno sabbatico. È stato un momento difficile perché mi ero separata dal padre di mio figlio. Avevo il desiderio di documentare la vita di mio figlio, ma anche di capire la fotografia contemporanea.
Iscrivermi all’Ecole Supérieure Des Beaux-arts di Marseille-Luminy nasceva dalla curiosità, ma è stato anche un percorso intellettuale molto importante per me. Non avevo deciso che sarei stata fotografa, è la vita che mi ha portato in quella direzione. In particolare, documentare la vita di mio figlio è stato un modo per conservare una traccia. Un figlio cresce, cambia e poi un giorno se ne va.

Lei è ebrea marocchina, qual è il suo legame con le origini in rapporto al suo lavoro?
Non mi interessa tanto il fatto di essere nata in Marocco in una famiglia ebraica, piuttosto sono i legami familiari a interessarmi. Certamente, il contesto in cui si nasce e cresce, l’educazione determinano l’identità di ciò che siamo, la condizionano. Tutti questi strati mi appartengono e me ne servo.

In che modo?
Non saprei dire, in particolare, in che modo me ne servo. Cosa avrei potuto dire se fossi nata altrove?

Quando ha lasciato la sua città, Casablanca, per andare a Marsiglia?
Avevo 17 anni quando, con i miei fratelli, sono venuta a Marsiglia per studiare.

In Marocco, come in tutto il Maghreb, la comunità ebraica che è antichissima era perfettamente integrata. Cosa è cambiato nel tempo?
Allora c’era una comunità molto importante che ora è scomparsa, anche se non abbiamo subito pogrom né deportazioni. C’era sicuramente un piccolo razzismo quotidiano come dappertutto. Come dico sempre a mio figlio sono qualcosa come l’«ultimo dei Mohicani», perché ho conosciuto delle cose che non ci sono più e che lui non potrà conoscere. Dagli anni ’40 e ’50, in base a quello che diceva mia madre, ma del resto anche al tempo in cui andavo a scuola, la popolazione era di 4 o 5 milioni di persone. Oggi, invece, gli ebrei sono circa centomila. Era una comunità molto unita dove tutti si conoscevano e la vita era fatta di rituali e abitudini.

La memoria è anche un filo conduttore del suo lavoro?
Non so se questo lavoro possa avere a che fare con il tema della memoria. All’inizio non dicevo neanche di essere nata in Marocco. Quello che mi interessa delle dinamiche della famiglia è il sentimento della perdita. Sembra stupido ma tutti vogliono lasciare la casa dei genitori, però alla fine c’è questo sentimento di perdita che è molto difficile da gestire. Anch’io quando ho creato la mia famiglia, e poi mi sono separata da mio marito, ho rivissuto una sensazione di perdita che è stata molto dolorosa. Probabilmente proprio ora, parlando con te, mi viene quasi da capire che forse quel sentimento di perdita è legato al fatto che ho lasciato un universo particolare.
A Casablanca era come stare in una grande famiglia dove l’uno poteva contare sull’altro. Ma, allo stesso tempo, dove tutti sanno di tutti. Io volevo vivere un’altra vita, essere libera, anche perché essendo un paese arabo c’erano delle costrizioni nei confronti delle donne. Sono partita con il desiderio di farlo, ma tutto ciò ha creato anche un sentimento di perdita.