«Sono una scrivana pubblica, solo che invece di usare la penna uso la videocamera», diceva Carole Roussopoulos. Alla pioniera del video come strumento di intervento civile la Médiathèque Valais di Martigny (in Svizzera) dedica la mostra intitolata Carole Roussopoulos. La vidéo pour changer le monde – fino al 28 ottobre. Nata a Losanna e scomparsa nel 2009, Roussopoulos è una figura di riferimento per comprendere il ruolo che la produzione audiovisiva ha svolto nelle più importanti lotte politiche del secondo Novecento, a partire dal femminismo, non solo documentandole ma partecipandovi.

L’esposizione, a cura di Séverine André, si articola in tre sezioni principali: la prima illustra il contesto storico in cui la videasta iniziò il suo lavoro; la seconda si concentra in modo particolare sul suo impegno nel movimento di liberazione delle donne; la terza rende conto delle opere realizzate nella sua maturità, per infrangere ogni tabù dietro cui si nascondono violenze e ingiustizie: dando voce e visibilità a chi non ne aveva, il lavoro di Roussopoulos ha contribuito per quarant’anni all’affermazione pubblica di soggettività ignorate e represse quali donne, omosessuali, operaie, prostitute ma anche senza tetto, vittime d’incesto, persone handicappate, anziani, malati di cancro.

 

L’incontro tra Carole e il video è tutto un programma. Nel ’67, Carole (nata de Kalbermatten) ha ventidue anni e vorrebbe fare la giornalista, così lascia la Svizzera alla volta di Parigi dove trova un impiego a «Vogue» che le permette di pagarsi l’affitto e gli studi di lettere alla Sorbona.

 

Sono gli anni delle lotte studentesche a cui lei partecipa senza affiliarsi ad alcun gruppo entrando però in contatto con alcune figure che si riveleranno determinanti: da un lato, Paul Roussopoulos, rifugiato politico greco, scienziato e pittore, che le sarà compagno e complice per tutta la vita; dall’altro, Jean Genet che, quando nel ’69 lei perde il lavoro, le consiglia d’investire la buonuscita nell’acquisto di una «macchina rivoluzionaria», una videocamera leggera Portapak della Sony. Si tratta del primo sistema di videoregistrazione analogico con batteria autonoma, comodo e d’uso intuitivo, discreto e maneggevole, che riesce ad arrivare dove il cinema e la televisione dell’epoca non potevano o non volevano. A Martigny sono esposte le pubblicità Sony dell’epoca: immagini di giovani donne con la videocamera a tracolla suggeriscono una semplicità d’uso tale che pure una ragazza può arrivarci.

 

Nel ’69 Carole lascia dunque l’assegno di «Vogue» al negozio ed esce in strada a filmare. È la seconda in Francia ad acquistare una Portapak, il primo è stato Jean-Luc Godard appena quindici giorni prima. Grazie a Genet, realizza il suo primo film, oggi perduto: Hussein, il Nerone di Amman, girato in Palestina nei giorni del Settembre Nero con Mahmoud Al Hamchari, rappresentante dell’Olp a Parigi. Il suo più vecchio film ancora oggi visibile è sempre del ’70 e mostra un discorso di Genet in sostegno di Angela Davis, appena arrestata, e contro la politica razzista degli Stati Uniti. Lo scrittore è ripreso mentre viene intervistato da una televisione che – come i due sospettavano – non trasmise mai quelle dichiarazioni, salvate e messe in circolazione grazie al girato di Carole. Per contrasto nella prima sala dell’esposizione, De Gaulle pronuncia con eloquio solenne un discorso mandato in onda dall’emittente di stato francese nel ’68.

 

Negli anni Settanta, il video offre quindi la possibilità di elaborare un contrappeso al discorso mediatico dominante e di lottare a favore di una liberazione delle immagini dai condizionamenti, anche tecnici, a cui sono sottoposte. Nel ’71 Carole e Paul con Hélène Chatelain fondano Vidéo Out, il primo collettivo per la produzione, realizzazione, montaggio e diffusione di video che milita per la libera espressione audiovisiva. Demistificando la tecnica e la professionalità, la creatività si sviluppa e l’ingegno si aguzza per risolvere gli imprevisti. È Paul a inventare una procedura artigianale di montaggio delle bobine video con cutter e scotch che insegnò anche a Godard. Carole documenta le prime riunioni del Fronte omosessuale di Azione Rivoluzionaria, il F.H.A.R., nonché le prime grandi manifestazioni femministe di quegli anni e realizza con le militanti video come Y a qu’à pas baiser (’73) sull’aborto o i due film sulla protesta delle operaie della fabbrica Lip di Besançon.

 

Ma predicare a orecchie sensibili non è sufficiente, bisogna raggiungere un pubblico più vasto e così Vidéo Out inventa un modo di diffusione alternativo, la «vidéo-brouette» ossia la «video-carriola»: «Andavamo nei mercati e chiedevamo a un banco o a qualche locale di attaccarci alla loro presa di corrente e poi, dal cofano della nostra automobile, facevamo uscire uno schermo con una specie di cornice nera in cartone tutto attorno e da lì mostravamo i nostri video». Faticoso e dispendioso in termini di tempo ed energie, il metodo – documentato tra l’altro nel film Les prostituées de lyon parlent (’75) – viene sostituito nel ’74 da un collettivo che si occupa esclusivamente di distribuzione, Mon Oeil.

 

 

Inoltre, a Parigi, Carole organizza seminari di autoformazione alla tecnica video e a uno di questi incontra Delphine Seyrig, allora già attrice nota, molto impegnata nel movimento delle donne. Dalla loro complicità nascono progetti: con il nome Les muses s’amusen e poi Les Insomuses danno vita a S.C.U.M. Manifesto (’76), in cui Seyrig legge passi del testo di Valerie Solanas, o l’irridente Maso et miso vont en bateau (’76), film di montaggio realizzato con Nadja Ringart e Ioana Wieder. È con Delphine e Ioana che Carole dà vita nel 1982 al Centre audiovisuel Simone de Beauvoir, archivio, centro di produzione e distribuzione femminista attivo ancora oggi sotto la guida di Nicole Fernandez Ferrer che fu sua collaboratrice.

 

Il femminismo è per Carole è uno sguardo e un metodo d’approccio al mondo, a cui renderà un articolato omaggio con il documentario Debout! Une histoire du mouvement de libération des femmes (’99). Nel corso degli anni, il suo impegno di documentarista e di passeuse de parole si è rivolto a vittime di violenza, di mutilazioni genitali, tossicomani, carcerati, anziani e diseredati di ogni tipo ma le persone intervistate non sono mai solo delle vittime bensì dei soggetti in grado di appropriarsi del video come strumento di autodeterminazione.

 

La mostra di Martigny presenta una collezione di queste testimonianze su schermi mimetizzati e nascosti dietro porte chiuse che è necessario aprire per scoprire vite altrimenti invisibili. Lì accanto, a ricordare l’esperienza che Roussopoulos ebbe come esercente tra il 1986 e il ’94 quando succedette a Frédéric Mitterrand nella gestione del cinema d’essai L’Entrepôt di Parigi, una piccola sala proietta integralmente i più noti film di Carole nonché il documentario di Emmanuelle de Riedmatten Une femme à la caméra (2012).

 

A partire dal ’95, Carole Roussopoulos lasciò la capitale francese per tornare in Svizzera, vicino a Sion, dove continuò il suo lavoro tra arte e attivismo e dove Paul ancora vive. Del 2007 è la sua decisione di donare i propri archivi alla Médiathèque Valais oggi diretta da Sylvie Délèze. La mostra di Martigny rende disponibili su vari schermi e su una postazione al termine del percorso i 150 film della videasta conservati nel fondo a lei dedicato, digitalizzati e messi a disposizione del pubblico grazie alla collaborazione con Memoriav, associazione per la salvaguardia del patrimonio audiovisivo svizzero. Tutti questi film sono accessibili presso la mediateca ma alcuni, e il loro catalogo completo, sono visibili anche tramite il sito: archives.memovs.ch.