Sorprendente Carola Rackete. Nel suo libro, Il mondo che vogliamo, scritto con Anne Weiss e con una splendida introduzione dell’attivista del Ciad Hindou Oumarou Ibrahim (Garzanti con la Repubblica, pp. 157, euro 12), intreccia il racconto di quei drammatici, caldissimi giorni di giugno a bordo della Sea-Watch 3 con riflessioni sulla sua vita, sulle leggi e le convenzioni internazionali che regolano i soccorsi umanitari e sui mali del mondo che provocano tali tragedie. Il libro si legge d’un fiato. Ci rivela molte cose che avevamo intuito in quei giorni concitati e altre che meritano di essere conosciute sul conto dell’autrice.

CAROLA RACKETE, trentuno anni, ha un’infanzia normale in una cittadina della Sassonia. È una ragazza semplice, solare. Viaggiatrice e «capitana» per amore della natura, che la porta a laurearsi anche in scienze ambientali in Inghilterra. Vede in rete una chiamata delle Ong tedesche, a corto di ufficiali di navigazione, mentre partecipa a una campagna scientifica nei boschi della Scozia. Sente di non potersi sottrarre all’impegno diretto. Ognuno deve fare la sua parte per quello che sa fare, rispondendo alla propria coscienza, scriverà nel libro. È lo stesso atteggiamento con cui la notte del 26 giugno prende la decisione di attraccare alla banchina di Lampedusa disobbediendo alle ciniche, miserevoli disposizioni delle autorità politiche italiane e alle pericolose manovre di una motovedetta della Guardia di Finanza. Agisce in nome di una necessità urgente: porre fine alla sofferenza di 42 profughi stremati. Nessuna sfida eroica. Carola, come i medici, i macchinisti i marinai volontari della nave, non è una «rivoluzionaria di professione», un’antagonista a tempo pieno. È una donna pragmatica, che mette a disposizione tutta se stessa, responsabilmente e coscientemente, con professionalità e lucidità, per dare una soluzione degna alle persone che chiedono aiuto.

FIN QUI LA CRONACA di una vicenda anche giudiziaria che è servita a ridicolizzare le politiche dei «porti chiusi» dei governi italiani ed europei. Ciò che non conoscevamo, invece, è la profondità del quadro conoscitivo e teorico dentro cui Carola Rackete pone l’intera vicenda. Una parte del libro è un vero e proprio saggio sulle cause delle migrazioni forzate. Non è il cibo che manca, non sono le risorse naturali a scarseggiare, ma l’uso che ne fanno le élite del nord del mondo. La catastrofe climatica e i conflitti per l’accaparramento delle materie prime stanno costringendo alla miseria e alla fuga milioni e milioni di persone. «Tutto – nel nostro mondo, scrive Rackete – è orientato alla conservazione del sistema in modo che le persone nei paesi industrializzati continuino a consumare e l’economia continui a crescere«. »La logica della crescita e della competizione è stata interiorizzata», è diventata una «mentalità dominante» da cui non sfuggono nemmeno le soluzioni cosiddette green. «Non sorprende quindi che la panacea di questa crisi sia battezzata con lo stesso nome del piano economico di Roosvelt: Green New Deal. I nuovi consumi ecologici dovrebbero contribuire a contrastare la crisi del mondo finanziario, del sistema economico e la distruzione dell’ambiente». L’economia verde per rivitalizzare il mercato non l’ambiente. «Ma questo approccio – prosegue – è ingenuo. Non tiene conto del fatto che gli incrementi di efficienza vengono annullati o perlomeno notevolmente ridotti dal meccanismo della crescita». Per cui: «le strategie che offre la Green Growth fanno parte dello stesso sistema che ha scatenato la crisi (…) non mette in questione il modello generale di crescita economica». L’illusione del «decoupling», dello svincolo tra crescita economica e suoi impatti negativi sugli ecosistemi, viene documentata con vari casi concreti di tecnologie «verdi» che hanno semplicemente spostato altrove e in avanti i problemi.

PER RACKETE non c’è quindi alternativa: «bisogna mettere un limite al consumo totale di risorse. Bisogna impedire alle aziende di trarre profitto dalla distruzione della natura». L’alternativa è «un sistema, chiamato degrowth (decrescita), che rifiuta fermamente la crescita come obiettivo dell’economia». È necessario immaginare una società della post-crescita che modifichi comportamenti e stili di vita. Che ristabilisca «che cosa è per noi una buona vita».
L’ultima parte del libro di Rackete è un appassionato appello al’azione, all’impegno politico diretto, ispirato alla disobbedienza civile nonviolenta, nel nome delle lotte dei popoli indigeni (tra le molte figure viene ricordata Wangari Maathai), delle giovani generazioni (Greta Thunberg), dei diritti della natura. In fin dei conti, ricorda Rackete, «ogni movimento all’inizio è piccolo, spesso comprende solo una manciata di persone», ma poi possono verificarsi convergenze e confluenze repentine che fanno crollare muri e aprire porti.
Un messaggio di grande speranza con una sola nota stonata. Il libro è veicolato dal quotidiano «la Repubblica», tra i più impegnati nel chiedere lo «scudo legale» agli inquinatori dell’Ilva, il blocco della ecotassa sulla plastica, la realizzazione del Tav e degli inceneritori ovunque. Speriamo che il volume faccia breccia nei cuori e nelle menti di chi legge il giornale.