Carol Goodden è stata fondatrice insieme a Gordon Matta-Clark, suo marito, di «Food», il ristorante-culto della Soho newyorkese degli anni settanta. L’abbiamo intervistata in occasione della mostra Unfake Connections, presso la Fondazione Zimei di Pescara, basata sulle relazioni intercorse tra lei, Matta-Clark e Trisha Brown.
Da quale esigenza nacque, nella scena sperimentale di cui facevi parte, l’idea di «Food»?
Non c’era alcun posto dove mangiare a Soho, in quegli anni. E dopo un party, dove avevo preparato una cena utilizzando solo fiori, Gordon mi disse «ma perché non apri un ristorante?», dato che a me piaceva cucinare e avere tanta gente intorno. Io gli risposi «lo farò se tu lo farai con me», e lui fu d’accordo. Così cominciai a cercare uno spazio a Soho, perché Soho era un’area composta da ventinove blocchi, completamente piena di operai andati via dal New Jersey. Tutti gli edifici vuoti iniziarono a essere popolati dagli artisti, ma non c’erano ristoranti. Questo fu uno dei motivi principali per cui decisi di aprire «Food» in quella zona. La mia idea si basava su diversi livelli: un luogo dove cucinare, dove pensare e fare progetti con il cibo e tanto altro. Inoltre per me era importante avere uno spazio a disposizione degli artisti. Volevo che gli artisti lavorassero lì e per questo chiedevo loro di cosa avessero bisogno per farlo. Potevano essere impegnati due giorni la settimana, quattro giorni la settimana, a settimane alterne, tutto quello che volevano per organizzare il loro lavoro. Perciò «Food» era uno spazio informale, un posto dove incontrare amici, dove gli artisti potessero pensare coreografie, fare musica, scrivere,  scolpire. E inoltre io volevo che fosse un luogo dove le persone potessero vedere la preparazione dei cibi, comprendere in che modo erano realizzati i piatti. Gordon disegnò la cucina, nonché i grandi fornelli bassi: ne avevamo due davanti, regolabili, e dietro, più bassi in stile giapponese, con un fuoco grande molto potente. Creammo un grande pentolone per le zuppe e gli stufati, così che le persone si potessero avvicinare e sentire i profumi di quello che stavamo cucinando, e quindi scegliere.
Puoi spiegare qual era la qualità specifica delle relazioni fra gli artisti?
Gordon stava nell’area di Soho. Prima che io arrivassi lì, abitava nei pressi di Chinatown, molti artisti abitavano a Chinatown in quel periodo, ma iniziarono a spostarsi a Soho. Trisha Brown fu uno di questi: lei con altri artisti comprarono un vecchio palazzo per cinquemila dollari, praticamente niente. Perché quella parte della città era svalutata e quindi era facile affittare spazi con poco o comprare per cifre irrisorie persino interi palazzi. Jeffrey Lew, un altro mio amico, fece la stessa cosa, comprò un vecchio palazzo e riempì tutti gli appartamenti di artisti. Andò bussando a tutte le porte degli amici artisti, Gordon era uno di questi, Richard Nonas un altro, poi Trisha Brown, Susan Rothenberg, Keith Sonnier, Philip Glass… A tutti disse: «questo è l’edificio, fatene ciò che volete!». Quindi nel piano interrato e in quello principale gli artisti si organizzarono da soli per fare delle mostre. Gordon era il più attivo al 112 di Greene Street (questo era l’indirizzo del luogo), e lì fece la sua prima mostra, stupenda.
Descrivila.
Aveva collezionato tante bottiglie di birra di vetro verde, che aveva collocato nello spazio, lavorando al tempo stesso in strada, aggiungendo  tazze di vetro che filtravano la luce dell’esterno e la proiettavano all’interno ed erano ovunque, fino alle scale che portavano giù nel piano interrato. Riempì un triangolo con tutte queste bottiglie verdi, e la luce che entrava dalla strada veniva filtrata da queste bottiglie. E questo fu il suo primo lavoro lì. Perché noi due ci conoscemmo al 112 di Greene Street: lì mi chiese di uscire la prima volta. Una notte volle prendere tutte queste bottiglie per andare sotto il ponte di Brooklyn, altro posto che amava, e giunti lì le ruppe tutte facendole in mille pezzi, che poi raccolse con una scopa per metterli in alcune forme quadrate, realizzando dei mattoni. La serie completa di questi pezzi era di sette esemplari, io avevo l’ottavo, che non possiedo più in quanto l’intero lavoro andò in una mostra a Londra, qualcuno lo rubò e il collezionista che ne era propietario mi propose di acquistare il pezzo che Gordon mi aveva regalato.
Oltre al momento alimentare e a quello espositivo, in quella comunità artistica di Soho non mancava l’esercizio corporeo…
Conoscevo ai tempi Richard Nonas, che era molto amico di Trisha Brown, e dissi a lui che abitualmente facevo equitazione e che a New York non avrei saputo cosa fare. Richard mi disse «dovresti conoscere Trisha Brown e far parte della sua classe di danza». Così feci e partecipai a due delle sue quattro classi, e a lei piacque veramente tanto il mio approccio. Perché Trisha lavorava sulle idee e non voleva una formazione tradizionale, non voleva che i suoi performers provenissero dal balletto e che restituissero quel tipo di immagine. A quel tempo voleva formare la sua Trisha Brown Dance Company e fui coinvolta proprio da lei come co-fondatrice del gruppo insieme a Carmen Beuchat, Sylvia Whitman e Penelope. E al 112 Greene Street vennero eseguite tante coreografie del gruppo. La galleria era considerata la sorella di «Food», le persone andavano sotto e sopra tra questi due spazi, si incontravano, parlavano: la galleria era il salotto di «Food».
Ma il tuo impegno non si esauriva con «Food» e la Trisha Brown Dance Company…
Uno dei miei impegni fu organizzare una serie di danze con  Susan Weil, che era stata la prima moglie di Bob Rauschenberg. Lei portava indumenti dove erano stati messi dei semi ed era cresciuta l’erba. Danzava con questi indumenti… e io ero affascinata dal caos provocato dalla pioggia sui tetti, sulle foglie. Allora pensai: «come posso far cadere le persone come gocce di pioggia?». Considerai che se avessi appeso a una lunga barra alcune persone, pian piano sarebbero cadute giù una dopo l’altra in base alla loro resistenza, magari due sarebbero potute cadere allo stesso momento, proprio come la pioggia. Gordon attaccò la barra al soffitto, i danzatori ci si appesero e nacque quella specie di danza.
E il tuo lavoro nella scultura?
Tina Girouard fece un lavoro al 112 Greene Street: lei era interessata allo spazio, aveva realizzato un piccolo lavoro sotto il ponte di Brooklyn con la polvere, e ripropose quest’idea in galleria. Dovevamo pensare a quale parte dello spazio potevamo ritenere nostra. Io scelsi il pianerottolo retrostante. Ho messo lì un’amaca attaccata a due colonne di ferro, e in quella zona c’era una finestra, lì realizzai un doppio schermo fatto da due zanzariere, mettendovi dentro dei grilli vivi. Cominciarono a cantare, mi ricordavano quando da bambina ero in Nevada e li ascoltavo per ore. Mi piacciono i grilli. Credo di avere ancora una bella foto di quella scultura. Con i grilli ho creato anche una collana, realizzata con alcuni tubetti di plastica dove, anche lì, misi dei grilli vivi che potevano muoversi all’interno. Ovviamente la collana aveva tanti fori che permettevano loro di respirare. Ma siccome non cantavano, registrai il loro suono e quindi indossai la collana con i grilli, girando con il piccolo registratore attaccato alla cintura.
In quell’universo sperimentale, del resto, l’autore tendeva a sottrarsi a favore dell’opera, no?
Per me l’elemento più interessante era condividere il processo creativo. Avevo delle ottime idee ma non dovevo necessariamente realizzarle io, potevano farlo altri: lavorare con Joan Jonas, pensare con Tina Girouard, aiutare Gordon. Noi facemmo dei «pezzi» insieme, come la performance eseguita con un paracadute intitolata Tree Dance. Io facevo le foto di tutti i balletti di Trisha Brown, perché mi è sempre piaciuto fotografare: per esempio fotografavo i lavori di Gordon.

Non c’era nessuna resistenza a condividere le idee altrui?
Trisha Brown, soprattutto, era molto orientata a includere il lavoro di altri autori: a me piaceva tantissimo questo approccio, quest’idea di partecipazione. Non ho mai avuto la necessità di essere creativa in proprio, a eccezione che nella scrittura: sono sempre stata appassionata di scrittura, purtroppo non ho mai portato a termine una storia, nonostante molti editori mi incoraggiassero.
Il fare esperienza, il creare collettivamente: è questo, soprattutto, che colpisce di quel momento newyorkese…
Una volta Jeffrey Lew, proprietario del 112 Greene Street, mise dell’acido nelle birre: la reazione fu sconcertante, con gente ammucchiata, chi si spogliava, chi tremava, chi aveva visioni e chi faceva sesso. Un’artista del gruppo, di cui non posso dire il nome perché è molto conosciuta, iniziò a fare l’amore con un pittore, mentre il marito, un altro bravissimo artista, la chiamava al telefono perché l’aspettava a casa con il figlio. Non riuscivamo a muoverci: io e Gordon ci facemmo coraggio, e la mattina ce ne andammo… Non avevamo aspirazioni. Personalmente volevo essere coinvolta nelle situazioni e basta. Senza pensare a niente, ma solo per farne parte.
E oggi, cosa ti piace fare?
Mi piace addestrare i cavalli.