Caro giovane Renzi,
Mi permetto di darti del tu non certo in nome di un’antica consuetudine un tempo in voga in certi ambienti, ma perché, generazionalmente, potrei essere tuo padre, e quindi ti parlo come parlerei ad uno dei miei figli.

Mi aveva stupito verificare che tu, dopo aver per mesi sostenuto che l’articolo 18 (già sufficientemente manomesso meno di due anni fa), non era un problema, hai improvvisamente esplicitato con grande franchezza che cosa intendessi dire: che non è un problema… eliminarlo. Nell’ultima riunione di direzione del tuo partito hai poi generosamente «aperto» ai licenziamenti disciplinari, per quei casi – secondo il nuovo testo dell’art. 18 – in cui una persona venga accusata di un fatto poi risultato «insussistente». Molte grazie. Ma non vorresti estendere la reintegra ai licenziamenti economici: ciò significa che i datori di lavoro che vorranno liberarsi di un dipendente che «alza la testa» non dovranno fare altro che inventarsi un giustificato motivo oggettivo: non ci sarà reintegra neppure se risulterà «manifestamente insussistente»!

Vedi, caro Renzi, il diritto del lavoro è una branca del diritto civile, e deve quindi stabilire le regole destinate a disciplinare un contratto tra due persone. Con la differenza che nel rapporto contrattuale che vede lo scambio tra lavoro e salario, ad una delle due parti viene attributo un potere che l’altro non ha: tale potere, che è quello di organizzare l’impresa, comprende anche quello disciplinare e quello di interrompere il rapporto. Non ci vuole molto per comprendere come, in questo modo, si metta la vita di una persona nelle mani di un’altra. Tu mi dirai che questo avviene in altri contesti, come ad esempio in un esercito. Ed io ti rispondo che quel tanto vecchio e superato Statuto che vorresti rimodernare è sorto proprio perché nel 1970, a distanza di oltre trent’anni da una Costituzione che aveva stabilito che l’impresa privata avrebbe dovuto esercitarsi senza recare danni alla dignità umana, la vita nei luoghi di lavoro era proprio come dentro le caserme.

Io faccio, di mestiere, l’avvocato del lavoro e tutti i giorni, da quasi quarant’anni, siedono di fronte a me persone che pensano di subire o di aver subito dei soprusi nei luoghi di lavoro. Per poter sapere se questo è vero o no l’unica strada che hanno è di mettere la decisione delle mani di un giudice, terzo ed imparziale. Proprio quello che tu dichiari di voler evitare: sogni un meccanismo automatico di risarcimento economico (le tanto sbandierate «tutele progressive» probabilmente significano, solo, che i soldi aumentano a seconda dell’anzianità di servizio).

Ma il principale scopo dell’ordinamento giuridico è quello di ripristinare la situazione di legalità: credo che, se qualcuno occupasse abusivamente la casa dove abiti, anche tu preferiresti tornarne in possesso, piuttosto che essere risarcito economicamente.

Mi dici poi che la reintegrazione è un falso problema perché sarebbero pochi i lavoratori che negli anni recenti ne hanno usufruito: pensi che se si appurasse che il numero delle rapine a mano armata fosse clamorosamente diminuito, sarebbe motivo sufficiente per eliminare quel reato? Non ti viene il sospetto che la forza di una norma consiste soprattutto nel prevenire la violazione di una legge, piuttosto che nel reprimerla?

La verità è che nel momento in cui dichiari di voler favorire l’ingresso dei precari nel mondo del lavoro subordinato vuoi rendere quel mondo, ancora di più, precario al suo interno, perché non tutelato dall’abuso.

Quando avrai portato a termine il tuo progetto di «uguaglianza» tra lavoratori di serie A e quelli di serie B (collocandoli tutti in B), a quelli che ogni giorno mi chiederanno se e come difendere i loro diritti nel luogo di lavoro, dovrò dare una risposta univoca: «Non puoi fare niente, se non vuoi correre il rischio di essere licenziato. Il tuo datore di lavoro può metterti in mezzo a una strada, anche per motivi futili e ingiusti, cavandosela con una manciata di euro. Quindi magari dedicati al golf, così potrai allenarti a tirare dritto, ma sempre con la testa china».

* Alberto Piccinini, avvocato del lavoro