L’uscita di Matteo Renzi sui tagli agli stipendi dei supermanager pubblici piace. Le proteste erano prevedibili, corredate degli usuali argomenti e di qualche arroganza. Resisteranno a parole – dice il premier – ma poi dovranno cedere. Faccia attenzione: questa è gente al cui confronto la pelle del coccodrillo è un panetto di burro.

Ci provammo, quasi dieci anni or sono, io e Cesare Salvi a porre un tetto ai maxistipendi. Aprimmo sul tema con un libro che ebbe all’epoca qualche fortuna (Il costo della democrazia, 2005 e 2007).

Fu significativo che al successo letterario – avemmo persino il prestigioso premio Capalbio – si associasse il silenzio fragoroso, e per qualche verso rancoroso, della politica.

Essendo propensi entrambi a vivere pericolosamente, traducemmo le proposte in emendamenti alla legge finanziaria. Era al governo Prodi, e la maggioranza in Senato si reggeva su un pugno di voti. La minaccia di un gruppetto di pasdaran di non votare aveva un peso. E fu così che entrò nella legge 296 del 2006 (legge finanziaria 2007) l’art. 1, comma 593, che per la prima volta – a quanto so – traduceva il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione in un tetto per gli emolumenti in vario modo a carico dell’erario. E si introducevano forme di pubblicità.

Nel 2007 non mancarono polemiche. Il 19 giugno in commissione lavori pubblici del Senato il sottosegretario Tononi rispose a una domanda della sen. Rame sugli emolumenti di Moretti avanzando una singolare tesi: «Si tratta di un dato che tecnicamente è coperto da riservatezza». A suo avviso, nella dichiarazione dei redditi di Moretti sarebbe risultato che la retribuzione era meno della metà dei quella del predecessore Catania (due milioni di euro). L’11 luglio 2007 l’interpellanza 2-00216 volse l’attenzione sul presidente dell’Anas Ciucci, che si diceva avesse percepito una cifra non lontana da un milione e mezzo di euro. Il governo rispose che non aveva superato i 750.000. E già altre interrogazioni (3-00333 del 23 gennaio 2007; 3-00594 del 19 aprile 2007; 3-00698 del 5 giugno 2007, a firma mia, di Salvi e altri) avevano sollecitato il governo a rispondere anche su interpretazioni riduttive della norma approvata. Per un anno non accadde assolutamente nulla. Così, tornammo alla carica, e dopo una durissima battaglia in commissione bilancio, conquistammo l’art. 3, commi 44 e seguenti, della legge 244 del 2007 (finanziaria 2008).

Renzi dovrebbe studiare attentamente quei passaggi parlamentari. La controparte vera della piccola pattuglia di riformatori d’assalto si rivelò soprattutto lo stesso governo. La trattativa – che sperimentai di persona – fu estenuante. Ogni lobby, gruppo, cordata, affiliazione, sponsor si mobilitò. Ogni pressione fu fatta su ministri e sottosegretari, al fine di difendere i pingui portafogli in pericolo, dalla Banca d’Italia alle autorità indipendenti, dalla Rai alle società partecipate, alle consulenze. E il governo rispose.

Il punto è che non avevamo espugnato Palazzo Chigi, che pure sostenevamo. E nemmeno avevamo conquistato nell’animo la maggioranza parlamentare. Non a caso, alla camera il centrosinistra demolì il testo senato, guadagnandosi sul Corriere della sera un articolo al cianuro di Rizzo e Stella, dal titolo eloquente: «E alla fine la Camera tagliò i tagli» (13 dicembre 2007). Fu solo la rabbiosa reazione delle teste di cuoio del senato a far ripristinare il dettato originario, con buona pace di chi ritiene che il bicameralismo non serva a nulla. Comunque, una vittoria effimera, presto dimenticata negli anni di Berlusconi. I temi di allora sono poi stati ripresi a partire dal governo Monti. E ancora ne parliamo.

Ma perché accadde? Chi ha interesse, può leggere il mio intervento in discussione generale sulla legge finanziaria nella seduta antimeridiana del 19 dicembre 2007. La disordinata privatizzazione di pezzi delle strutture pubbliche nel nome di una malintesa efficienza aveva spostato in un cono d’ombra di trattativa formalmente privatistica le retribuzioni dei vertici. Mentre il dipendente doveva affidarsi a scioperi e trattative sindacali, comunque pienamente visibili, il megadirigente trattava per se stesso in una stanza chiusa e sottratta a ogni attenzione. E magari trattava – si fa per dire – con il politico amico e sodale che l’aveva portato alla nomina. È così che alla fine il più scalcagnato dei nostri megamanager guadagna un multiplo dello stipendio del Presidente degli Stati Uniti.

E il mercato? L’argomento vale in base a una premessa: che ne esista uno. Ma tra le grandi illusioni connesse alla privatizzazione di pezzi di ciò che un tempo era pubblico troviamo appunto quella di un bacino comune di dirigenti pubblici e privati nel quale amministrazioni e imprese potessero pescare guardando alle capacità e alle competenze. Non è accaduto. Invece, abbiamo un mercatino sostanzialmente separato della dirigenza pubblica e parapubblica. Non è un caso che sentiamo così spesso gli stessi nomi, cresciuti e consolidati sotto l’ala della politica, che rimangono nel giro a prescindere dai risultati conseguiti.

Non si arrenderanno senza combattere. Quindi, caro premier, prepara elmo e corazza. I peggiori nemici sono nella stanza accanto alla tua.