All’indomani delle dimissioni di Benedetto XVI, auspicai che il nuovo papa scegliesse il nome di Francesco per meglio affrontare la vera sfida che lo attendeva: liberare la chiesa dal potere temporale. Liberarla cioè da quelle enormi proprietà immobiliari, finanziarie e commerciali che l’hanno trasformata in uno dei poteri economici e politici mondiali, capace di condizionare gli Stati e di corrompere se stessa.

Oggi ad Assisi il nuovo vescovo di Roma spiegherà come la Chiesa si deve spogliare delle sue ricchezze per stare più vicina ai poveri e ai bisognosi, proprio come il Poverello si spogliò da tutti i suoi averi per meglio “vivere secondo la forma del Vangelo” piuttosto che “vivere secondo la forma della Chiesa di Roma”.

Una indicazione, quella di Bergoglio, coerente con la scelta di un nome che per ottocento anni nessuno dei suoi predecessori aveva avuto il coraggio di prendere proprio a causa dell’evidente stridore con l’essere un sovrano dalle proprietà sconfinate. Dalle sue parole di oggi capiremo se siamo davanti a fatti concretamente rivoluzionari. Nell’attesa, da radicale anticlericale che qualche esperienza di “roba” ecclesiastica l’ha maturata, mi permetto una consulenza non richiesta.

Per liberare la chiesa dal peso degli affari e farne strumento affinché la società tutta riprenda ad essere attenta verso gli ultimi, serve qualcosa di più del giustissimo richiamo ad utilizzare i monasteri come centri di accoglienza per i rifugiati piuttosto che come alberghi di lusso. Occorrerebbe convertire l’immenso patrimonio immobiliare e finanziario vaticano in tutto il mondo per affermare il diritto umano fondamentale a non subire condizioni di miseria. In pratica, il papa potrebbe farsi promotore, con una prima dotazione che dovrebbe poi coinvolgere l’intera comunità internazionale, di un vero e proprio fondo per un welfare universale. Un fondo da affidare in via fiduciaria all’Onu e/o ad altre istituzioni internazionali.

Il fiume di denaro che viene oggi drenato dalle tasche dei cittadini potrebbe essere destinato a tale scopo, richiamando la chiesa a quell’altissima povertà praticata da Francesco d’Assisi come forma di vita. Il caso italiano, anzi, è forse quello dove appare più evidente quanto il disarmo del potere clericale possa produrre effetti positivi anche sullo Stato in cui per tanto tempo è stato esercitato.

Prendiamo l’otto per mille, ovvero un miliardo e duecento milioni di euro delle nostre tasse che ogni anno la Cei incassa grazie ad un meccanismo truffaldino e alla complicità di politica e istituzioni. Gli stessi soggetti, peraltro, che hanno sabotato il referendum radicale con il quale chiedevamo di abolire la norma grazie alla quale finiscono nelle mani di Bagnasco anche i soldi dei cittadini che non esprimono una scelta. Ecco, si da il caso che l’otto per mille incassato dalla Cei equivalga alla metà dei fondi che l’Italia destina alla cooperazione per lo sviluppo: 2,6 miliardi di euro nel 2012, appena lo 0,13% del Pil rispetto al target dello 0,7% indicato dall’Onu.

Papa Francesco potrebbe chiamare il presidente Letta e dire pressappoco così: «guarda, per quest’anno la metà del nostro otto per mille lo lasciamo allo Stato perché vada ad aumentare il fondo per la cooperazione, a patto che il governo italiano contribuisca per una cifra almeno pari». In un sol colpo avremmo il raddoppio dei fondi per i paesi poveri (il picco lo si ebbe negli anni ’80 grazie alla campagna del partito radicale contro lo sterminio per fame nel mondo) e l’interruzione di una truffa a danno degli italiani e della libertà religiosa.

Senza problemi per le parrocchie, visto che alla Cei rimarrebbe l’enorme cifra di 600 milioni di euro l’anno, sinora utilizzata per sostenere il progetto culturale di Camillo Ruini più che per aumentare gli interventi caritatevoli.