Visto che i giudici di pace non ascoltano, speriamo almeno che abbiano il tempo di leggere. E’ l’idea con cui una settantina di immigrati – in maggioranza slavi e africani – detenuti nel Centro di identificazione ed espulsione romano di Ponte Galeria ha deciso di avviare una nuova protesta scrivendo ognuno di loro una lettera al giudice di pace che continua a prorogare la loro detenzione. «La nostra è una protesta pacifica che abbiamo deciso di fare perché quando veniamo portati davanti al giudice il più delle volte non riusciamo neanche a parlare, a spiegare le nostre vite che subito veniamo rimandati nel Cie», spiega Dalibor, bosniaco di origine ma nato in Italia, che da sei mesi è chiuso nel Cie romano. Da qui l’idea di raccontarsi nella speranza, appunto, di essere capiti.
Ogni lettera una storia, che allo stesso tempo è diversa e uguale a tutte le altre. Storie come quella di Brajm, rom di origine slava ma nato anche lui in Italia e padre di otto bambini, tutti cittadini italiani come sua moglie. Due mesi fa è stato fermato dalla polizia per un controllo e sorpreso con il permesso di soggiorno scaduto, e da allora è rinchiuso a Ponte Galeria. Fuori la moglie deve badare da sola ai figli, ma senza il suo aiuto è praticamente impossibile. Brajm non ha infranto la legge, non ha commesso nessun reato ma nonostante questo è stato privato della sua libertà. E come Brajm anche Dario, 19 anni, nato anche lui in Italia da genitori bosniaci. Da febbraio è rinchiuso anche lui nel Cie alla periferia di Roma solo perché non aveva i documenti in regola.
Nello scorso mese di dicembre sempre a Ponte Galeria una decina di immigrati tunisini sono arrivati a cucirsi le labbra per attirare l’attenzione sull’assurdità di una legge che permette di tenere richiusa una persona anche per 18 mesi in attesa che venga identificata prima e poi rimpatriata. «Non vogliano arrivare a quegli estremi, la nostra vuole essere una dimostrazione pacifica», ripete Dalibor.
Imprigionati non per aver fatto qualcosa, bensì per quello che sono: irregolari. Una situazione ancora più assurda se si pensa che molte di queste persone sono nate in Italia e quindi, anche volendo, non avrebbero neanche un posto dove essere rimpatriate.
Ora la speranza è di riuscire, attraverso le lettere che il direttore del Cie ha promesso di consegnare al giudice di pace, di essere finalmente ascoltati e capiti. E se non dovesse essere così? «Noi ci proviamo. sempre meglio che non fare niente», risponde Dalibor. Che poi aggiunge: «Non perdiamo la speranza, ma certo c’è un limite a tutto».