Una carneficina: almeno 140 morti, uccisi dentro due moschee sciite della capitale Sana’a durante la preghiera del venerdì. Non manca del simbolismo nell’ennesima strage che insanguina lo Yemen in guerra civile: lo scontro sunniti-sciiti, acceso dagli attacchi del potente braccio di Al Qaeda e dalle palesi intromissioni di altri regimi arabi, ha trasformato il povero Stato del Golfo in un non-Stato. E ora entra in gioco un altro mortifero attore: l’Isis.

Due kamikaze si sono fatti esplodere nelle moschee Badr e al-Hashoosh, frequentate da membri del movimento sciita degli Houthi. Da settembre controllano la capitale e da due mesi hanno creato un governo parallelo a quello del presidente Hadi, fuggito ad Aden dopo settimane di arresti domiciliari. «Teste, gambe, braccia erano sparsi per terra – dicono i sopravvissuti – Il sangue scorreva come un fiume».

E se fonti locali additavano già al Qaeda, account Twitter riconducibili all’Isis attribuivano allo Stato Islamico la responsabilità del massacro. La Casa Bianca prende tempo: è probabile che il califfo voglia attribuirsi l’operazione solo a fini di propaganda, ha detto il portavoce Earnest, perché non esistono prove della presenza di una struttura radicata dell’Isis in Yemen. Eppure la stessa al Qaeda ha preso le distanze dal doppio attacco, mentre il califfato rilasciava un comunicato via Twitter: «Se Dio vuole, quest’operazione sarà solo una di una prossima alluvione».

La strage di ieri non è certo un atto estemporaneo, ma l’ultima fase della guerra aperta tra le due comunità religiose su cui fanno leva attori esterni, dai gruppi estremisti islamici ai regimi arabi. Giovedì teatro di duri scontri era stata Aden, “capitale” provvisoria del presidente Hadi: aerei da guerra hanno bombardato il palazzo presidenziale, mentre la battaglia tra Houthi e forze militari infuriava all’aeroporto, dopo il tentativo sciita di assumerne il controllo. «Hadi è in un posto sicuro, ma non ha lasciato il paese», fanno sapere i suoi consiglieri, che definiscono il raid «un colpo di Stato fallito».

Di certo c’è un paese spaccato a metà: gli Houthi, apparentemente sostenuti dall’ex presidente Saleh, deposto dalle proteste popolari scoppiate nel 2011, controllano il nord, ma mantengono sotto la loro influenza anche il centro. Il sud, a maggioranza sunnita e area più ricca di greggio, è in mano al governo ufficiale. In mezzo la possibile faida tra l’Isis e la madre tradita, al Qaeda, che in Yemen ha la sua roccaforte: difficile immaginare che i qaedisti non risponderanno all’intrusione del califfato.

Un gioco dei ruoli, che vede coinvolti tutti. Perché a gestire le fila della guerra civile yemenita sono i poteri forti della regione: Riyadh accusa gli Houthi di essere organizzati dal nemico Iran, che a sua volta punta il dito sulla longa manus saudita che da decenni controlla lo Yemen, costretto dalle difficoltà economiche ad appoggiarsi al potente vicino.

Eppure solo una settimana fa l’Arabia Saudita aveva aperto al dialogo con i ribelli, nel tentativo di limitare l’influenza dell’Iran, che sta accumulando vittorie in tutto il Medio Oriente, in primis in Iraq, dove guida la liberazione di Tikrit. Il 15 marzo scorso il leader Abdel Malek al-Houthi aveva confermato il riavvicinamento a Riyadh e il giorno dopo aveva rilasciato il premier Baha e i suoi ministri, agli arresti domiciliari da febbraio. Un’apertura dettata non tanto dalla necessità di frenare la guerra civile, quanto dalla crisi finanziaria che a breve investirà la Sana’a degli Houthi, priva dei fondamentali finanziamenti sauditi: Riyadh ha chiuso i rubinetti così come la Banca Mondiale, con il rischio di far collassare un paese la cui popolazione vive in miseria.

Ma subito l’intenzione degli sciiti di trattare con Hadi, come proposto dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, è stata archiviata. I raid su Aden ne sono la palese dimostrazione. Dietro sta il timore fondato di un’eccessiva ingerenza dei sauditi che non hanno mancato di intervenire militarmente in passato sia per sedare le sollevazioni Houthi, sempre più frequenti negli ultimi anni a nord-ovest, che per soffocare nel sangue le proteste pacifiche del 2011.

Lo spettro di una nuova divisione dello Yemen, tra nord e sud, si fa ogni giorno più concreta. Ma agli sciiti la soluzione non piace: il sud resterebbe in mano alle tribù sunnite che godrebbero degli ingenti profitti della vendita del greggio. E il nord soffocherebbe nella povertà e l’esclusione sociale.