Agli inizi dell’Ottocento un modesto medico delle campagne bergamasche osservò, e scrisse in una relazione, che gran parte della popolazione, che si nutriva essenzialmente di mais, era affetta dalla pellagra. Ne erano esenti i capifamiglia che, una volta alla settimana, andavano al mercato in paese e si fermavano all’osteria dove mangiavano un po’ di carne.

Nella carne doveva esserci qualcosa che evitava la comparsa della pellagra, una malattia che oggi sappiamo dovuta dalla carenza nella dieta di triptofano, uno dei nove amminoacidi essenziali che il nostro organismo non è capace di sintetizzare per la formazione delle proteine e che deve essere apportato con l’alimentazione. Il mais è povero proprio di triptofano e di altri amminoacidi che i capifamiglia ottenevano da quella carne che mangiavano ogni tanto.

Gli amminoacidi, una ventina in tutto, sono le piccole molecole che costituiscono le proteine, e gli amminoacidi essenziali sono presenti in quantità limitate in molti degli alimenti vegetali. Così nelle centinaia di migliaia di anni dell’evoluzione, i nostri antenati hanno capito che potevano sopravvivere mangiando, oltre ad alcuni vegetali (bacche, frutti, radici, semi), anche la carne di alcuni animali uccisi con la caccia. Quando i nostri progenitori, appena diecimila anni fa, hanno smesso di correre dietro agli animali, hanno scelto di allevare gli animali capaci di dare carne, latte, uova, cioè i cibi ricchi degli amminoacidi indispensabili per la vita umana.

Ci piaccia o no, quindi, abbiamo bisogno di carne e di alimenti tratti da bovini, suini, pollame, una popolazione di miliardi di animali che hanno effetti negativi sull’ambiente nelle fasi di allevamento, trasporto, macellazione.

Gli allevamenti animali assorbono, oltre a migliaia di miliardi di metri cubi di acqua, grandi quantità della biomassa vegetale «economica» disponibile nel mondo: circa 10 miliardi di tonnellate all’anno rispetto ai circa 5 miliardi di tonnellate all’anno di biomassa vegetale utilizzata direttamente per l’alimentazione umana.

L’allevamento dei bovini comporta la necessità di ampliare continuamente i pascoli a spese di grandi superficie di foreste, specialmente nella zone tropicali del pianeta. E con le foreste viene distrutto anche l’unico modo naturale per disinquinare l’atmosfera «portando via» una parte dell’anidride carbonica, il principale gas serra responsabile del riscaldamento planetario e dei mutamenti climatici, continuamente emesso dalle industrie, dalle abitazioni, dalle automobili.

Nella trasformazione della biomassa vegetale in cibo adatto per l’alimentazione umana (appunto, carne, latte, uova) gli allevamenti intensivi di animali «economici» generano grandissime quantità di rifiuti costituiti da gas, fra cui il metano, altro potente gas serra, sostanze organiche, sali inorganici, che inquinano l’aria, il suolo, le acque. Una soluzione può essere cercata in un uso moderato, compatibile con le leggi della natura, della carne, il cui uso eccessivo – oggi, nel mondo, 300 milioni di tonnellate all’anno, di cui 70 di carne bovina – fra l’altro, è dannoso alla salute.