Domenica piovosa di fine estate. La linea telefonica raccorda l’Aurelia all’A35 che conduce Carmen da Milano a Verona, dove è in programma il concerto tributo a Franco Battiato. Il suo ricordo, dice, «provoca una fuoriuscita di lacrime inarrestabile». Memorie personali di natura umana e musicale: «Mi diceva: “Consoli, ricordati una cosa, la melodia deve tramare col testo. E se non sai dove andare segui il testo e piega la melodia, piuttosto». Nel ricordo si misura il peso di un lascito artistico universale: «Franco per me era il ragazzo di Riposto che osava disattendere il pubblico. La sua eredità è nel messaggio, sempre contemporaneo per le sue tematiche eterne: la vulnerabilità dell’amore, l’istinto animale, la rinuncia ai desideri terreni per raggiungere un senso di pace più alto. La sua poetica è assoluta, un filo dagli albori della filosofia a oggi… da Talete a Achille Lauro!». Come in un cambio di inquadratura, il pensiero si sofferma su quella terra tra mare e vulcano dove è fiorita tanta musica: «La scuola di Catania era una scuola socratica, niente libri, solo passaparola… abbiamo questo vizietto nel DNA: ci piace la filosofia, sperimentare, perdere tempo… ni cunnucemo! Facciamo una cosa pericolosissima, metterci in riva al mare e riflettere per ore, ti rendi conto che dispendio che causiamo al PIL italiano?».

DALLA STESSA PRATICA meditativa nasce l’ultimo album, Volevo fare la rockstar (Universal/Polydor), frutto di un biennio di lavoro: «Io e i miei collaboratori siamo in lockdown da vent’anni» — ironizza la Consoli — «isolati in montagna nel mio studio a Puntalazzo; io, Massimo Roccaforte e Toni Carbone, che della scuola catanese è uno dei maestri. Abbiamo registrato in diretta tutte le basi e buona parte delle voci, sovraincidendo un po’ di chitarre e tastiere… Poi abbiamo aspettato di uscire dalla zona rossa per avere gli archi! Io cucinavo per tutti, è stato molto bello». Trait d’union del disco è la commistione tra dimensione onirica e attualità: «Ogni autore in fin dei conti tratta per tutta la vita la stessa cosa, e questa si chiama poetica. Io alla fine comunico semp’a stissa cosa… l’esigenza di essere sé stessi, seguendo la bussola del cuore. Ma nel frattempo vivo, e mentre vivo mi arrivano informazioni, notizie, che accosto come in una cronistoria (e anche questo è tipico della scuola di Catania). Ma mai come quest’anno sento l’esigenza di parlare del sogno, dal punto di vista sia onirico che di valore extrasociale… anche se non produce PIL!».

Quello sul prodotto interno lordo diventa un leitmotiv che riappare periodicamente. «Ma cosa vuol dire poi creazione di valore? Senti che bello questo aforisma: la creazione di valore si ha quando si fa come il leone, che adopera la stessa forza sia che cacci un’antilope sia che insegua una libellula». E qui la poetica da cantautoriale si fa materna: «È di sogni che voglio parlare al mio bambino, non di soldi e successo. “Successo” è solo un participio passato». Reitera così gli insegnamenti paterni, quei concetti di impegno e coerenza cantati nel brano più bello dell’album, Armonie numeriche. «Mio padre odiava le persone approssimative, e mi ha insegnato che il talento, senza l’impegno e la coerenza, non basta… Francis Bacon, che cito spesso, diceva che un uomo vale per quanto conosce. E io sono d’accordo col signor Bacone». Le armonie sono esse stesse frutto di quei principi: «Mi sono rimessa a studiare e ho preso il diploma in teoria musicale alla Berklee di Boston… qua e là si sente nel disco, questo approfondimento sull’armonia, un altro discorso iniziato con mio padre. Era un musicista che studiava, mi faceva riflettere sulle regole armoniche… Diceva: “Ti suona bene al cuore, quello che hai scritto? C’è una spiegazione matematica a tutto”».

UN’IDEA FISSA che prende corpo anche negli studi di architettura recentemente intrapresi. Numeri, armonie, composizioni; la matematica abbraccia la filosofia inquadrando anche i sogni in un sistema cartesiano: «Considerando delle variabili finite nei sogni e delle incognite finite nelle armonie numeriche, il sistema è possibile e determinato: ogni cosa ha valore, e nel momento in cui individui le variabili finite il sogno diventa desiderio, e il desiderio diventa progetto». Tornando al linguaggio musicale, se è pienamente consoliano in brani come Qualcosa di me che non ti aspetti — in cui riecheggiano classici come Narciso e In bianco e nero — altrove ci sorprende con accenti cubani (Le cose di sempre) e code à la Genesis (ancora Armonie numeriche, «un tentativo di rifare la musica che piaceva a mio padre, amante del prog»). Ovunque, in ossequio al magistero di Battiato, il suono trama con i versi suggerendone senso e carattere, come fa l’ironico arrangiamento surf di Mago Magone (discendente del Mégu megún di De André?). Un disco compiutamente cantautoriale, per la cantantessa che “voleva fare la rockstar”. Che poi, cosa significa oggi essere una rockstar? «Avere urgenza di dire qualcosa» risponde perentoria. «Ho salutato con fiducia la vittoria dei Måneskin, perché è musica suonata, che nasce dalla necessità di esprimersi. Prendi anche Madame, Achille Lauro, Mahmood… Spero che esempi come questi restituiscano valore all’essere rockstar, altrimenti è solo ricerca del successo: niente talento, né impegno, né coerenza, niente da dire… Tanto, dice, che ci vuole a cantare? Perché canti? E tu, perché scrivi?». Ottime domande.