Questo Riccardo III di Carmelo Bene affronta la questione del teatro alla sua radice e restituisce alla scena e allo spettatore la radicalità della questione del «rappresentare» e dell’«esibire»: la negazione dell’illusione pacificante del rappresentare, dell’impersonare (un ruolo, un carattere, un «significato») e dell’incarnare, e il terrore di un linguaggio che divora se stesso e si consuma e si attorce attorno al suo apparire e svanire.

Come viene affrontata la questione del potere in questo tuo «Riccardo III»?

Il potere è assente da questo Riccardo; non lo ebbe in vita e lo non glielo do nemmeno in scena: è quella che Deleuze chiama la macchina da guerra, cioè rivoluzionante continuamente; l’odio per la quiete dello stato o per lo stato di quiete.

Deleuze mi pare dica che è colui il quale colpisce al cuore lo stato in quanto sistema di equilibri.
No. È in quanto stato, che non lo ammette. O vai a Hobbes, fai uno stato veramente mostro (un Leviathan) oppure per combatterlo… Ecco Riccardo III è quello che si oppone a questa macchina diventando più mostruoso dello stato stesso: però è solo, finisce solo come un cane.

Parliamo della deformità di Riccardo rispetto alla solitudine, alla pietà. Ci sembra che si possa dare un tipo di lettura all’interno del testo, del testo teatrale. Ci sembra che Riccardo rappresenti un po’ la «follia privata», forse anche come macchina da guerra, come uomo da guerra che deve stare contro tutto e tutti
La mette in scena proprio per esaminarla, per giocarci, anche.

Perché è l’unica cosa che può fare.
Per autoincularsi, certo.

Se c’è una cosa che porti avanti con coerenza, una linea veramente chiara nel tuo teatro, è quella di un teatro che non parte da un codice rappresentativo, dove non si rappresentano degli eventi, ma dove c’è una esibizione del teatro che si fa.
Direi veramente che è un giochetto borghese, piccolo – borghese, la rappresentazione. Non ha senso. È cretino anche il discorso di tutti i gazzettieri, del «teatro nel teatro»; peggio ancora savia…

Nonostante tutto, non c’è né teatro nel teatro né metateatro, né questo esercizio puramente teorico. Mi pare che questa volta arrivi al fondo, tocchi alla radice la questione del teatro: Riccardo in fondo si dà in pasto, sia sulla scena…

È un masochista, nel senso proprio che è un demolitore dell’Io.

Ci pare importante l’uso non delle luci, ma come attraverso le luci usi il buio: è una parete compatta. Nel «Romeo e Giulietta» avevi sperimentato la rifrazione degli altoparlanti. C’era un gioco di rifrazione tra playback, spettatore e personaggio: lo spettatore, dicevo, si vede visto, c’è questo terrore del «vedersi visto».
Sì, probabilmente Romeo e Giulietta è spettacolo più complesso. Io lo amo ancora, ma questo è davvero spettacolo più chiuso, è implacabile, non lascia spazi. L’unica cosa è che i giovani, soprattutto – salvo le eccezioni che si possono verificare ogni sera, anche in provincia – non lo capiscono. Il che documenta ancora una volta che non capiscono quanto hanno al di fuori, giorno per giorno. Almeno dovrebbero afferrarne la matrice anarchica, sovvertitrice dello stato, dello stato di cose, anche, se vuoi, non solo dello stato; della guerra al potere, ma nel senso di Deleuze, cioè anche come lingua minore, come linguaggio minore. Non si tratta di spodestare solo il principesco o il regale, si tratta di avere a che fare con una lingua. Ecco, forse. o son troppo giovani o… spero crescano presto prima che li facciano fuori tutti.

Ho notato in questo «Riccardo III» una assoluta frontalità. Mi sembrava che l’effetto più forte fosse quello di un teatro rifratto; non c’è rappresentazione, c’è questa esibizione ma estremamente controllata, molto chiusa, appunto, attraverso il linguaggio della scena, e l’uso del buio attraverso le luci: queste luci non riescono neanche loro a penetrare questo buio impermeabile.
C’è anche una cosa più profonda, cioè l’autoemarginazione. È questo che i giovani dovrebbero capire: non ci si deve mai sentire colpiti dalla emarginazione. Dire: mi si emargina. No, l’autoemarginazione deve essere una scelta, un premio. Non si parla col potere, non si deve parlare mai col potere, il potere non merita l’attenzione, soprattutto l’attenzione giovanile. Il potere è un fatto da snobbare, quindi l’autoemarginazione non deve essere stipendiata, perché l’unico modo di insultarla è quella di piegarla, di metterla al lavoro.

Ma l’isolamento totale non porta alla morte?
È una cosa molto pericolosa, ma alla morte ci sono andati gente come Majakovskij, come Blok, come Esenin. Le persone intelligenti, dice Freud, vanno alla morte.

Insomma emerge sempre questa «linea del negativo», non come opposizione, ma proprio come negatività, come negazione totale, assoluta. È quello che io chiamo il tuo «paradosso teatrale»: fare qualcosa nell’istituzione teatrale ma negarla nel momento stesso in cui si fa.
Sempre restando a quello che ho detto: che Schopenhauer è un ballabile, è un liscio, ecco.

Il tuo è un teatro che va contro l’accumulazione, tutto ciò che è accumulazione: linguaggio, esperienza, storia, codici, valori. Quindi, probabilmente anche se non si pone sul piano «positivo», come rivoluzionario…
È sempre e solo positivo, perché escludendo passato e avvenire si agita sempre nell’attimo, nell’essenza del divenire che ha.

Quindi non è un’operazione solo estetica.
Non solo non è estetica, ma soprattutto c’è il pericolo che sia scambiata per un’operazione formale, o formalista: che non è assolutamente.

Anche se poggia su una grande elaborazione formale.
Loro confondono la partitura col fatto di dire: le luci sono troppo ben fatte. Va be’, dobbiamo farle male? Non capisco.

Questo concetto di partitura si può esplicitare un po’?
Va dal copione… il primo copione lo scrivo veramente come viene poi rappresentato. Deleuze infatti ha scritto il libro sul copione, dove sostiene che le mie cose vanno lette soprattutto, forse perché crede che abbia scritto sempre cosi; Invece è la prima volta che scrivo un testo in questo modo. L’ho scritto quattro volte, cinque, prima di arrivare alla definitiva. La partitura abbraccia tutto: dal discorso talmente chiaro della protesi, fino alla débâcle, alla solitudine finale. Ma abbraccia anche partiture vocali: è segnato con una battuta musicale che Riccardo è tenore, è tenore drammatico non lirico, cioè può avere delle poggiature baritonali e da basso anche.
Poi c’è tutta l’ottava, e i ruoli delle donne anche sono segnati. Proprio a partitura; gli interventi, che poi fanno capo ai bui…

Quindi la partitura nel senso di scrittura.
Da non toccare assolutamente; non perché ci sia la musica, ma anche quando si parla…

Adesso mi sembra abbastanza chiaro in che maniera tu usi la partitura della scena, quanto il lavoro dell’attore, a cui tu tieni moltissimo.
Sì, direi che non starebbe in piedi altrimenti.

Da un po’ di tempo tu sostieni che l’attore deve arrivare sulla scena quando ha già dato tutto, come se desse i suoi resti: è un resto, quello che l’attore dà sulla scena, non deve dare delle «cose».
Deve dare la piena irrilevanza: «tra quegli estremi aneliti», cose del genere insomma. Deve già entrare stanco e senza niente da dire se ha coraggio. Entrare per aver da dire è idiota. Purtroppo sono venuto, come diceva Esenin, a insegnare ai sorci. Credo veramente che vent’an-ni di lavoro così non siano assoluta-mente serviti a niente.

È un teatro di «resti»…
Certo, e si dissolvono anche quelli. Quanto si è nel conflitto – ha ragione ancora Deleuze, sempre sul Riccardo III mio – allora sei nel consumo di nuovo, perché il conflitto è consumo. Ecco, io vorrei che 1 giovani capissero questo, poi si andassero a leggere due o tre testi importanti, e capito questo… che il conflittuale non è altro… è il borghese, il conflittuale. Non si parla con Andreotti ma non si parla nemmeno con Berlinguer, non si parla davvero con nessuno, non si parla con Almirante, non si parla… Non si parla. Non ci si rivolta nemmeno, perché quella rivolta è stata già promossa da loro, si è già strumenti.

Cioè stai parlando di un mercato.
«On n’échappe pas à la machine» non si scappa dalla macchina c’è nel «Kafka o per una letteratura minore» di Deleuze – Guattari. Si spiega benissimo, con pagine splendide, come non è che l’operaio, solamente quando è in catena di montaggio faccia la catena di montaggio, poi anche quando chiava è ancora in catena di montaggio. Non per condizionamento: perché non si scappa dalla trappola sociale; anche quando beve per essere solo, non è solo. Certo, non si scappa dalla macchina.

Hai avuto un grosso successo con quelle due serate di poesia in tv; hai usato il piccolo schermo in un modo veramente nuovo.
Ritengo il mezzo televisivo, non come usato per carità, il più affascinante, non solo, ma anche il più popolare, cioè sempre detto fra virgolette, popolare; ritengo l’ampex un mezzo completo. Bisognerebbe dedicarcisi. Vedrete 1 ’«Amleto» in bianco e nero che va al premio Italia. C’è tutto un discorso sul bianco e nero elettronico.
Non hai abbandonato l’idea di fare ancora del cinema. Intendendo non «tornare al cinema» ma fare cinema.
Il cinema è morto. Pensa che tu con un mezzo televisivo arrivi nel paese, nel borgo, arrivi al contadino, arrivi alla massaia, arrivi a tutti: l’aristocrazia… intendo questo per aristocrazia.

(26 febbraio 1978)