Vent’anni fa moriva Carmelo Bene, lasciando un’opera immensa in diversi campi e ancora tutta da decifrare, sfruttare, interrogare. Sono passati vent’anni e se per alcuni e alcune poteva essere solo ieri, per altri e altre – forse – la distanza temporale si può allargare a dismisura, come se fosse passata un’era geologica (e in effetti è un po’ così, se si pensa che Bene muore prima del reale avvento di Internet, dello streaming, dell’informatizzazione audiovisiva).

Il ventennale della morte del salentino lo si può prendere a pretesto per ripensare, in modo si spera proficuo, una parte dell’opera beniana generalmente nota al pubblico degli specialisti e dei fan ma spesso messa in secondo piano rispetto al resto: il suo cinema. Piaccia o meno, al di là del giudizio specifico sulla prassi, alcune intuizioni di Bene sul teatro sono circolate e, in un modo o nell’altro, hanno contribuito a scuotere e modificare certe forme e impostazioni in chi fa ricerca, ma – per motivi diversi – non si può dire altrettanto di quanto da lui fatto con i suoi film.

Bene non ha mai teorizzato in modo «organico» la sua idea di cinema. Eppure, al di là del suo caso, nei suoi film e in certi suoi interventi è possibile ritrovare tracce che possono valere come linee-guida per suggerire ai cineasti e alle cineaste di oggi un rinnovamento del mezzo, oltre le logiche autoriali.

Lo psicologismo al cinema si potrebbe definire come una eccessiva focalizzazione nelle spiegazioni delle relazioni tra personaggi, trame, e loro variazioni. Si sa, è una specie di derivazione della letteratura che ha toccato tanto il cinema commerciale quanto il cinema d’autore, soprattutto quello che si è sempre di più «configurato» come una specie di genere con ricetta standard (un po’ di crisi di coppia, un po’ di postmoderno, un po’ di critica sociale). Sia chiaro: niente di male in tutto questo, come niente di male in un uso «efficace» della psicologia.

Ma limitare il cinema a questo sarebbe, in fondo, un discorso normativo, miope, e banalmente stupido. Bene lo sapeva, tanto che per i suoi film ha coniato l’uso del termine «situazione» come alternativa alla nozione di dramatis personae. E, soprattutto, ha sviluppato diverse strategie nel tentativo di trovare soluzioni specifiche per il linguaggio audiovisivo ma equivalenti agli effetti di quella letteratura che è stata in grado di «dare vita» – invece che solo «dare voce» – a determinati personaggi.

Conscio che il mezzo cinematografico non permette di trasporre direttamente invenzioni come, per esempio, il monologo interiore alla Joyce, il nostro ha optato per una idea di cinema in cui la sua «distruzione dei personaggi» passa, anche, attraverso usi extra-verbali e anti-discorsivi del linguaggio. Commistioni di generi, negazione del dialogo, ripetizioni meccaniche e tanto altro: possiamo forse chiamare tutto questo antipsicologismo.

Le parole nei suoi film ci sono, ma non spiegano nulla: suggeriscono altro. E in questo altro c’è, sicuramente, l’effetto comico, che non solo è la comicità di battuta e testuale in voga da anni – anche di battuta cattiva, sarcastica, satirica – ma è soprattutto quella di chi mette in mostra il senso del ridicolo involontario, e quindi di sublime, che c’è nell’atto di mostrare e di mostrarsi. Come la ricerca della posa ideale in cui morire in Capricci, o i travestimenti in Don Giovanni. In questo, Bene può essere visto come la punta avanzata di una linea di ricerca che idealmente può collegare tanto il grottesco all’italiana dei personaggi che non si spiegano di Ferreri quanto la monotonia recitativa anti-mimetica presente nei film di Bresson.

In una intervista da lui rilasciata a L’Espresso, Bene fa l’elogio del cinema di Ciprì e Maresco, parlando – tra le altre cose – di un cinema in cui «il suono non è sonoro». Giustissimo. Ed è forse la frase che permette meglio di sintetizzare un discorso sulla funzione dell’ascolto nel cinema dello stesso Bene che, altrimenti, sarebbe giocoforza lungo e complesso, vista la ricerca allucinante da lui svolta sulla vocalità e la phonè.

Limitandoci al suo cinema, e senza toccare il discorso dell’immagine come impulso acustico, si potrebbe dire che il lascito dei suoi film sul piano dell’ascolto strettamente uditivo sia proprio questo: la possibilità di poter far emergere le potenzialità espressive del suono dissociandolo dai suoi contesti di origine, cioè dalla sua presunta riconoscibilità e quindi, anche, dalle sue sonorità. Producendo, per esempio, ambiguità: come gli spari della festa in Nostra Signora dei Turchi che sono già bombe.

Oltre a Ciprì e Maresco, si possono citare pochi altri nomi in cui il suono assume una funzione concretamente autonoma e significativa. Si può pensare ancora a Bresson, certo. Ma poco altro. Nel cinema italiano recente c’è forse solo Luca Ferri che, coi suoi primi film, ha provato a fare qualcosa di spiazzante in merito (le sue voci narranti poco narranti e molto stranianti).

I film di Bene sono costruiti e de-costruiti, si può dire che abbiano degli inizi e dei finali ma sono inizi e finali con funzioni a-narrative, più in linea con il linguaggio dell’opera musicale che con qualsiasi manuale di regia o montaggio. Ogni sequenza è, potenzialmente, autonoma. Ma il punto è proprio questo: pensare ad una idea di cinema in cui qualsiasi sviluppo – narrativo, audiovisivo, logico – riesca allo stesso tempo a contemplare, anche, qualcosa che smonti sé stesso. Per paradossale che sia, solo un intendimento del genere potrebbe permettere di strappare la visione alla visibilità, e quindi dare «profondità» reale a quello che ci si presenta davanti. «Quelli che vedono, non vedono quello che vedono», scriveva Bene. Al di là del gusto per i giochi di parole, la frase indicherebbe né più né meno come visione e immagine non siano necessariamente sinonimi. Forzando un po’ le cose, si potrebbe dire che quello che davvero si vede nei film di Bene, almeno secondo le sue intenzioni, sarebbe qualcosa che non è il film ma che emergerebbe in modo sensibile dal film. Nei fuori campo, nelle scelte compositive, negli elementi visibili non codificati, nei voluti buchi di montaggio.

Filmare un’azione così come ci appare è, inesorabilmente, produrre un’azione filmata, non un’azione. Vale come documento, ma non è sinonimo di movimento: è in questa indicazione, forse, che risiede uno dei lasciti più interessanti del cinema di Bene. Senza scomodare quello che lui chiamava «filmantesi» (il film che si filma, il film che cortocircuita sé stesso), la sua lezione potrebbe essere sintetizzata così: l’inquadratura non è un punto di arrivo ma il punto di partenza di un processo in cui strategie come nascondere immagini dietro ad altre immagini e calpestare la pellicola (Nostra Signora dei Turchi docet) possono e devono servire come soluzioni – fra le tante possibili – per ripensare e riformulare tutto, sempre, di nuovo.