Nella storia di Carlos Kleiber e della sua famiglia si riflette, come in una sorta di Pastorale americana della musica, la tragedia del Novecento europeo. Il padre, Erich, era stato uno dei principali direttori d’orchestra dell’area mitteleuropea: non i timori delle persecuzioni razziali lo indussero a rifugiarsi in Argentina negli anni Trenta, bensì la sua istintiva avversione alla insorgente barbarie. Nel 1925, aveva diretto a Berlino la prima del Wozzeck di Alban Berg, legando per sempre il suo nome alla Neue Musik viennese e, in generale, sostenendo tutte le forme di modernità culturale nella Repubblica di Weimar.

Dopo la salita al potere di Hitler, Kleiber si sforzò di tener fuori la politica dalle scelte artistiche della Staatsoper di Berlino, dov’era direttore musicale dal 1923, ma fu costretto a rassegnare le dimissioni nel 1934, quando i nazisti proibirono, in quanto entartete Musik, l’allestimento della nuova opera di Berg, Lulu. Da qui il suo vagabondaggio professionale da un teatro europeo all’altro, fino all’approdo a Buenos Aires con la moglie americana Ruth e i due figli, Veronica e il piccolo Karl, nato a Berlino nel 1930, che avrebbe deciso di assumere la forma latina del suo nome, Carlos.

Delle molte fantasticherie sulle rivalità tra padre e figlio, estese fino a ipotizzare una inesistente paternità di Alban Berg, l’unico documentabile attrito tra Erich e i figli riguarda la scelta di votarsi alla musica; per il resto, la realtà documentata attesta conflitti generazionali motivati da un padre autoritario e severo e da una madre spesso frustrante, all’interno di una famiglia come tante, infelice a modo suo.

La Buenos Aires dell’adolescenza di Carlos era una città incredibilmente attraente nel suo carattere meticcio, affollata di profughi ebrei, alla quale erano approdati molti scrittori, fra cui Witold Gombrowicz e Ramón Gómez de la Serna. In contatto con la cerchia letteraria di Maria Rosa Oliver, redattrice della rivista «Sur», fondata da Victoria Ocampo e José Ortega y Gasset, Carlos Kleiber consumò la sua formazione in un mondo culturale così vivace e aperto da rendergli prevedibilmente angusto il breve soggiorno a Zurigo, dove il padre lo aveva spedito alla fine degli anni Quaranta per studiare chimica al Politecnico, nella speranza di allontanarlo dalla musica. In Conservatorio Carlos aveva ricevuto una educazione formale, limitata e non particolarmente brillante: imparò a suonare, malamente, il pianoforte e i timpani, e non prese mai una lezione di direzione d’orchestra.

Ciò nonostante, il suo talento musicale, la sua capacità di penetrare nel cuore delle partiture e di estrarne i significati più profondi, era così evidente che il padre dovette arrendersi, sebbene la propria esperienza gli avesse reso chiaro quanto la professione di direttore d’orchestra non avrebbe mai ripagato il figlio delle fatiche necessarie per raggiungere l’eccellenza.

La storia lo smentì: più Kleiber si sottraeva alle dinamiche della promozione e della routine, più crescevano, insieme a lodi e lusinghe, le mirabolanti offerte. Leggendarie le sue fughe, e proprio da quelle contingenze che meglio avrebbero contribuito alla sua leggenda: la rinuncia alla registrazione del Concerto Imperatore di Beethoven con Arturo Benedetti Michelangeli, del quale Kleiber non sopportava il gelo, è ormai celebre; o il repentino abbandono, dopo l’ennesimo litigio con il tenore René Kollo, del Tristan und Isolde commissionato dalla Deutsche Grammophon, che decise comunque di pubblicare il disco assemblando il materiale registrato durante le prove, col risultato di allontanare per sempre Kleiber dalla maggiore etichetta discografica dell’epoca.

Eppure, queste idiosincrasie, che sarebbero costate la carriera a chiunque, alimentavano paradossalmente la sua leggenda, perché era lampante la scossa elettrica che attraversava l’orchestra appena Kleiber prendeva la bacchetta in mano, e con quanto amore il suo istinto poetico affiorasse non solo nel grande repertorio sinfonico, limitato sempre più a pochi titoli come la Settima di Beethoven e la Quarta di Brahms, ma anche e forse di più nella musica cosiddetta leggera come i valzer della famiglia Strauss e le operette come la Fledermaus. Il segreto dell’arte di Kleiber, fatto salvo il corollario di innumerevoli conoscenze indispensabili per gestire un organismo tanto complesso come l’orchestra, era probabilmente un senso interiore del ritmo musicale insuperabile, cosa totalmente diversa dalla scansione metronomica del tempo.

Kleiber sapeva rendere immediatamente limpido e naturale a musicisti e cantanti il metro sottostante a un fraseggio, a una figurazione ritmica, a un’articolazione formale, ottenendo esecuzioni miracolosamente fluide e leggere come la Libelle di Josef Strauss, che forse è l’esempio più sublime della sua capacità di distillare poesia anche dal più elementare gruppo di note. La perfezione del ritmo, inteso come spina dorsale invisibile di ogni partitura musicale, trasformava ogni sua interpretazione in un’incredibile esplosione di vitalità, contrapposta a una superficiale scansione del tempo che rende in realtà una pagina musicale un rigido treno di battute morte. Non a caso, le sue imprese artistiche memorabili riguardano soprattutto lavori impregnati dello spirito della danza, primo fra tutti il Rosenkavalier di Richard Strauss, l’ultima opera che Kleiber diresse in teatro.

Nella contraddizione tra l’ascetismo estetico più rigoroso e lo sfacciato cedimento degli ultimi anni, segnati da sporadici concerti pagati a peso d’oro ma di scarsa qualità musicale, si riflette lo storico passaggio che ha portato a ridefinire culturalmente la figura del direttore d’orchestra. Il mito del Maestro, incarnato dagli dèi eponimi Toscanini e Furtwängler, trovò in Kleiber un riverbero del tutto personale: assistendo a una prova della Elektra di Strauss diretta dal padre, raccontò di immaginare le braccia del direttore allungarsi a dismisura e la sua ombra assumere proporzioni colossali. Gravava su di lui il peso di una enorme responsabilità: figlio di una generazione che stava assistendo alla definitiva disgregazione delle rappresentazioni romantiche, Kleiber scivolò lentamente nella convinzione di quanto fosse vana la ricerca della perfezione e della verità musicale, fino ad aggiungervi il corollario della sua personale insoddisfazione verso il rifugio in una interiorità astratta e separata dal concreto flusso della vita.

Il filtro dell’ironia, dell’umorismo, del gioco di parole fulmineo e imprevedibile, furono la difesa che eresse tra sé e un mondo sempre tenuto a critica distanza. E forse non è un caso se della sua intimità gelosamente custodita Kleiber abbia deciso di rivelare qualcosa a un oscuro direttore d’orchestra californiano, Charles Barber, in ragione di nient’altro che una lettera, da lui spedita senza speranza di risposta e alla quale, invece, il già celebrato direttore, che non rilasciò mai un’intervista né pubblicò una sola riga firmata di suo pugno, rispose.

Raccolta nel 2011 in un volume (che Kleiber, nella sua ritrosía, avrebbe aborrito), Barber decise di mettere a disposizione questa anomala corrispondenza, corredandola con un esaustivo racconto biografico e un’ampia appendice comprensiva di discografia, filmografia e repertorio. Il ritratto che viene fuori da Carlos Kleiber Vita e lettere (a cura di Charles Barber, traduzione di Marco Bertoli, Il Saggiatore pp. 505, € 38,00) è quello di una intelligenza mercuriale, una individualità ironica e artistica che Hegel avrebbe detto «genialità divina», costantemente indotta a provare negli altri la sospettata limitatezza, l’incapacità di cogliere la ridicola vanità di una vita radicata nell’etica e nel rigore.

Da qui gli strali polemici contro Lincoln e Gandhi, da qui anche la venerazione per Emily Dickinson, nel cui cagnolino si diceva ironicamente reincarnato. Agli altri direttori, a tanti musicisti, Kleiber non risparmiò battute feroci, osservazioni caustiche, tutte dettate dalla sua istintiva ripulsa verso il più minuscolo orpello retorico colto dal suo orecchio nelle varie interpretazioni esaminate nei preziosi filmati, compresi i rarissimi documenti del padre Erich, raccolti da Barber con certosina pazienza per la biblioteca della Stanford University.

Tra coloro che salvava, direttori meno avvezzi alle luci della ribalta, come Klaus Tennstedt e Reginald Goodall, ma anche il musicista che più degli altri sembrava incarnare l’Anticristo del suo mondo, Herbert von Karajan, che Kleiber avrebbe voluto redento da ogni peccato commerciale e restituito alla limpida essenza del suo far musica.
Ogni immagine di Kleiber sul podio – insieme a Leonard Bernstein il direttore d’orchestra più fotogenico del Novecento – esprime la perfetta armonia del suo corpo con la musica, rendendo irresistibile il desiderio di immergersi nel suono derivato dal suo gesto. Ma nel volto di questo uomo il cui amore per la musica rasentava l’odio di sé e del mondo – dal quale progressivamente si ritirò, rinnegando anche i legami più cari, fino a scomparire del tutto – era nascosto un enigma, che riporta alla mente le parole del principe Myskin di fronte al ritratto di Nastassia Filippovna: «In quel viso parevano esserci uno smisurato orgoglio e un disprezzo che sconfinava nell’odio, e nello stesso tempo c’era un che di fiducioso, di meravigliosamente ingenuo».